di
Luca Mastrantonio

Luigi Gianello e Martina Binotto accusati di omicidio con dolo eventuale per aver ritardato diagnosi e cura del figlio morto per un tumore. Si sono affidati a terapisti che predicano la pericolosa teoria dell’ex medico tedesco

Guardo la foto di Francesco Gianello che mi hanno messo davanti i suoi genitori, Luigi Gianello e Martina Binotto, e sul volto del ragazzo proietto quello che provo mentre li ascolto.

Compassione, per l’incubo in cui si sono trovati. Rabbia, perché si sono fidati di chi predica una cura che crea false illusioni. Rispetto, perché ammettere i propri errori può anche essere una strategia processuale, ma farlo pubblicamente, intanto, è di aiuto a chi si può trovare in una situazione simile.



















































Per Martina Binotto e Luigi Gianello, oggi, 21 ottobre inizia in corte d’Assise al tribunale di Vicenza il processo per omicidio. Del figlio Francesco, morto a 14 anni, a causa di un tumore. Il reato ipotizzato dal pm Paolo Fietta è omicidio con dolo eventuale: il decesso del figlio sarebbe stato causato o accelerato dai loro ritardi nella diagnosi e nelle terapie. Di certo, si sono affidati a un medico veneto, iscritto all’ordine, e a due terapisti che diffondono la dottrina Hamer. Ovvero la teoria dell’ex dottore tedesco Geerd Hamer, il cui metodo prescrive di non contrastare la malattia, ma di assecondarla, in quanto sintomo della risoluzione di un conflitto biologico innescato da un trauma.

I genitori di Francesco vivono a Costabissara (Vicenza), con il secondogenito, Filippo, che non è in casa. L’incontro si svolge nella cucina, dalla finestra si vedono i monti, sul muro un quadro raffigurante Gesù. Sul tavolo, una torta vegana fatta in casa. Assistiti dagli avvocati Lino e Jacopo Roetta, i genitori di Franesco hanno deciso parlare con il Corriere della Sera e rompere il silenzio perché non si riconoscono nel racconto di chi li ha dipinti come dei genitori mostruosi.

Prima di iniziare la conversazione, la madre accende un cero davanti alla foto di Francesco. Poggiato di spalle a un abete, le braccia conserte.

Dov’è il bosco della foto?
LUIGI GIANELLO: «È l’Abbazia di Novacella, Alto Adige».
MARTINA BINOTTO: «Aspettava il turno per fare un percorso tra gli alberi, con una fune. Ho messo questa foto sulla tomba, in quella di prima aveva un’aria triste. Qui è contento. Amava la natura, gli piaceva camminare, era felice scalzo tra gli alberi».

Ha gli occhi del padre. E non solo.
LG: «Ho sempre sognato di avere un figlio e chiamarlo Francesco, un nome che comunica forza. È nato in casa, grazie a un’ostetrica della zona».

Che adolescente era Francesco?
LG: «Irrequieto, ci scontravamo sulle uscite con gli amici e sul cellulare. Fino ai 14 anni, qui, è bandito. È una regola non scritta della scuola steineriana, dove andava Francesco e dove va Filippo, il fratello. Il cellulare per uso personale, solo dopo la terza media».

Quando iniziano i problemi di Francesco?
LG: «A dicembre 2022, forti dolori alla gamba. Dopo una risonanza magnetica andiamo al Rizzoli di Bologna».

Lì la diagnosi di tumore. Come l’avete presa?
LG: «Pensi “si stanno sbagliando, adesso vado a letto, mi sveglio e domani torna tutto come prima”».
MB: «Come quando prendi uno schiaffo e non sai se riesci a stare in piedi».

Vi invitano a fare accertamenti. Programmate biopsia e PET. Poi le disdite. Perché?
LG: «Abbiamo sentito al telefono il dottor Matteo Penzo, ci ha detto che con la biopsia c’è il rischio che la malattia si possa espandere. Non dovevamo farla, insisteva».

Fate dimettere Francesco, contro il parere dei medici. E poi?
LG: «A Padova, da Penzo. Segue le teorie di Hamer, dice che la malattia ha un senso biologico. Basta individuare il conflitto che è all’origine. Per l’osteosarcoma al femore, che verrebbe dal francese “fare muro”, va capito se Francesco sta vivendo una situazione che non riesce a sopportare. E noi pensiamo al fatto che era finito fuori squadra a calcio, allo scontro con un insegnante… e a me che sono esigente, sulla scuola. Penzo attribuiva anche a me la colpa».

La teoria di Hamer porta a colpevolizzare il malato, i suoi familiari, persone vicine. Conoscevate già Penzo?
LG: «No. L’avevo sentito alla radio, diceva cose che hanno un certo senso».

Che “hanno”? Forse “avevano”, Francesco non c’è più.
LG: «Avevano un senso… Mi sono affidato a Penzo perché mi dava una qualche forma di speranza». 

E come?
LG: «Se avessimo risolto il conflitto Francesco sarebbe stato meglio, diceva. Secondo Hamer, quando spunta la malattia vuol dire che il conflitto è già in fase di guarigione. Quella che noi chiamiamo malattia è già un sintomo di guarigione».

Come vi siete sentiti dopo questo consulto?
MB: «In balìa. Mi aspettavo una visita medica, lui insisteva con questi conflitti. E neanche ha visto i documenti che abbiamo portato».

E della chemio cosa diceva Penzo?
LG: «Diceva che non serviva…»

Per il tumore cos’ha detto di fare?
LG: «Argilla e anti-infiammatori».

E i risultati?
LG: «Dopo una nuova risonanza magnetica, Penzo ha detto che l’osso si stava ricostruendo, risolvendo…».

E voi?
LG: «Faccio il commercialista, non il medico. In una situazione di questo tipo ti affidi. Ho pensato tra un po’ ricomincia a camminare».

E dopo cosa vi dice di fare?
LG: «Bisognava dargli un rinforzo psichico oltre che fisico, ci suggerisce due nominativi, Pierre Pellizzari e la moglie Imma Quaranta. Facciamo un primo colloquio a Padova, in cui c’è anche Francesco. Raccontiamo la nostra storia e anche lì si parla però dell’aspetto emotivo. E loro ci propongono di cambiare aria».

Ma avete spiegato loro che a vostro figlio hanno diagnosticato un osteosarcoma?
LG: «Sì, eravamo lì per quello. Loro danno una lettura in linea con quello che diceva Penzo».

Sul loro sito in Valdibrucia, in Toscana, sponsorizzano processi di auto-guarigione di Hamer.
LG: «Sì, ma all’inizio loro non ci parlano della Valdibrucia, ma dell’Egitto».

Dell’Egitto?
LG: «Ci propongono di far fare a Francesco due o tre mesi al caldo, al mare. Ma non era un centro medico, era un residence con piscina… Lì ho avuto un momento di lucidità. Ho pensato “va bene, lo portiamo in Egitto. Ma poi?” E cosa diciamo ai miei suoceri? A scuola? E se succede qualcosa di brutto là?».

Optate per Valdibrucia. Sul sito sponsorizzano percorsi di auto-guarigione di Hamer. Cosa avete fatto lì?
LG: «Io sono tornato a Vicenza per lavoro e per la scuola di Filippo. Mia moglie si è licenziata per star vicina a Francesco».
MB: «Si stava all’aperto, al sole, alimentazione curata, massaggi, esercizi per la muscolatura, bagni rilassanti…».

Poi la situazione precipita e lo portate al pronto soccorso di Perugia.
LG: «Francesco comincia ad avere problemi agli arti, comincia un po’ a perdere la vista e lì dopo due o tre giorni lo portiamo in ospedale a Perugia, perché non era più possibile tenerlo a Valdibrucia e lì cominciano a farci domande e raccontiamo un po’ quello che è successo fondamentalmente».

All’inizio dite che lui è caduto dallo skateboard…
MB: «C’è un motivo. Prima di Perugia, portiamo Francesco in una piscina della zona. E una ragazza del centro ha tirato fuori il discorso di un ragazzo che aveva avuto una botta in testa e solo dopo un anno aveva iniziato ad avere problemi di movimento… e ho pensato che l’anno precedente, in Svizzera, a Lugano, era caduto dallo skate senza casco e aveva perso la memoria per 20 minuti. Così quando la situazione è peggiorata e siamo andati al pronto soccorso di Perugia avevo quell’idea in testa…».

A Perugia vi affidate ai medici senza più dubbi. Fate anche la radioterapia. Perché solo allora? Perché rischiavate di perdere la patria potestà?
LG: «Perché ormai era tutto chiaro, se fosse stato chiaro anche prima, avremmo agito diversamente».

Siete accusati di aver ritardato diagnosi e cure di vostro figlio. Da Bologna a Perugia. Sono 40 giorni, in cui la situazione è peggiorata.
LG: «Non abbiamo mai agito con l’intenzione di fare un danno a nostro figlio. Il dolore e le sofferenze patite in quel periodo, non solo da noi genitori ma anche da Filippo che per 10 mesi è stato privato di sua mamma, sono intrasmissibili. Non ci sono parole o discorsi che possano in un qualche modo rendere l’idea di quanto succede quando ti trovi ad affrontare situazioni del genere. A Bologna non abbiamo avuto l’aiuto psicologico di cui avevamo bisogno».
MB: «Bologna era stata un’esperienza traumatica. A Perugia abbiamo trovato più attenzione e supporto. Sono stati tre mesi di grande amicizia, con medici, infermieri… Nella tragedia, ci sono stati momenti belli. Il compleanno di Francesco, la visita a sorpresa di ragazzi e ragazze della scuola steineriana in gita ad Assisi… Francesco era diverso, lo vedevo sotto una luce nuova. Abbiamo imparato tante cose da lui».

Ad esempio?
MB: «Il coraggio, di cambiare idea, maturare… Vede la foto che hai davanti? Lui ci teneva a quel ciuffo sulla fronte. Aveva sempre il pettine con sé. A Perugia, quando aveva visto gli altri senza capelli, diceva “io no, no assolutamente”. Poi ha iniziato la chemio, e gli cadevano a ciocche. L’operatrice fa “Francesco, so che ci tieni al tuo ciuffo, ma è questione di igiene, poi te li trovi nei vestiti, nella ferita, pensaci, vengo qua e te li taglio tutti”. E lui “No, no”. A un certo punto, era domenica, fa “mamma, chiama Barbara, dille che domani tagliamo i capelli”. Insomma, è entrato che era adolescente, è uscito da Perugia che era un adulto.”
LG: «Francesco è riuscito a terminare la terza media. E l’anno dopo, ha seguito un po’ di lezioni del primo anno delle superiori».

Dopo tre mesi vi permettono di tornare a casa, a Vicenza, per somministrargli cure palliative.
LG: «Il 5 di ottobre, di due anni fa. L’abbiamo portato a casa. Io ogni tanto, ancora oggi, ci parlo. La stanzetta muta, la sedia vuota qui in cucina, sono insopportabili».
MB: «Alcuni conoscenti, ma pure alcuni sconosciuti, hanno organizzato una chat sul cellulare per aiutarmi con Francesco, che ormai pesava il doppio».

Penzo l’avete sentito quando gli somministravate le cure palliative?
LG: «Sì. Diceva che non servono a niente. Gli dicevo che non potevamo fare diversamente».

Il fentanyl suo figlio non lo prendeva per sballare. Ma per non soffrire.
LG: «Penzo diceva che così si addormentava, non era più cosciente e non poteva risolvere il conflitto».

Lei Hamer lo conosceva già?
LG: «Sì, ho perso la mamma, una zia, che è diventata praticamente irriconoscibile per le terapie. E ho perso amici, conoscenti, tante persone. Alcuni giovani. Così ho fatto ricerche su medicine alternative e ho trovato un libro… Grazie dottor Hamer…».

Testimonianze di sedicenti casi di guarigione.
LG: «Mi spaventava far fare a Francesco un percorso che avevo già visto fallire con altre persone».
Lo sa che il dottor Hamer si è operato chirurgicamente, al suo tumore? E ha mentito sulla cartella clinica della moglie, morta di tumore?
LG: «No».

Lei crede ancora in questo metodo?
LG: «Ho imparato che al di là del metodo, contano le persone. Forse con altre persone sarebbe andata diversamente. Abbiamo incontrato persone pericolose, sapevano quale era la problematica. E non è vero che ci sono delle cause. Nessuno può conoscere le cause. Solo lui le conosce le cause (indica l’immagine di Cristo, al muro, ndr)».

Ma ad altri genitori cosa direbbe sul metodo Hamer?
LG: «Per la mia esperienza, direi andate negli ospedali. Potete anche seguire Hamer, ma negli ospedali. Non affidatevi esclusivamente a lui. Questa cosa l’ho imparata».

Hamer dice di stare alla larga dagli ospedali. E lei, la madre, cosa dice?
MB: «Stare alla larga da Hamer. E se vuoi fare qualcosa, non farlo per i tuoi figli, ma devi essere tu, fallo per te stesso, non per altri. Non puoi dare consigli di questo genere, assolutamente».

21 ottobre 2025 ( modifica il 21 ottobre 2025 | 15:15)