di
Alessandro Trocino

Il Mostro (quattro episodi dal 22 ottobre) è una serie spiazzante e non assomiglia a nessun’altra serie sui serial killer

Facciamo una previsione, fallibile come tutte: questa è una serie che piacerà più ai critici che al pubblico. Sui primi già abbiamo qualche indizio, perché Il Mostro è passata al festival di Venezia e dunque già molti si sono espressi: giudizi per lo più positivi, ma anche qualche stroncatura. 

Noi, che ci sediamo dalla parte del pubblico, cominciamo a vedere la prima puntata e arranchiamo: ritmi lenti; sfalsamento dei piani temporali; sviluppo confuso; musica di sottofondo che si vuole inquietante ma che a volte è fastidiosa; assenza di volti noti tra gli attori (che però sono bravi); totale assenza dei «compagni di merenda», di Pacciani, Vanni e di tutto quello che l’immaginario delle cronache ci ha tramandato per anni del mostro di Firenze. Non si capisce bene dove vada a parare, lasciando lo spettatore interdetto. Però, per fortuna, non ci lasciamo scoraggiare e andiamo avanti.

Arrivano la seconda puntata, e soprattutto la terza. E tutto cambia. Cioè, non cambiano il ritmo narrativo lento e l’alternanza dei piani temporali. Cambia la percezione dello spettatore. Perché alla prima ricostruzione del delitto, alla prima versione, ne segue un’altra. E un’altra ancora. Ogni puntata ha un «mostro» e un punto di vista. E noi veniamo invischiati progressivamente nella tela di Sollima. Il lento indugiare della macchina da presa – con la musica di sottofondo, le atmosfere ambigue, l’indugiare sulla storia di questa famiglia sarda trapiantata nel Chiantishire – comincia a dare un buon raccolto, una messe di paura e di adrenalina.



















































Cosa (non) è Il Mostro

E dunque, a cosa somiglia questo Il Mostro, su Netflix a partire da mercoledì 22 ottobre? Non somiglia per nulla alle serie adrenaliniche, tutte colpi di scena e sequenze spettacolari, nonostante sia diretto da Stefano Sollima (Gomorra, Romanzo Criminale, Suburra), uno che ci ha abituato a ritmi e atmosfere alla Scorsese e Michael Mann, suoi punti di riferimento cinematografici. 

Non c’è neanche troppa morbosità
(un po’ di sesso e sangue sì, ma senza indugiare troppo). E non ha granché a che fare con Zodiac, il film sul «Mostro» americano, diretto da David Fincher. Siamo anche anni luce lontani da The Monster, la serie su Ed Gein uscita qualche settimana fa, e che salda atmosfere horror, tra necrofilia e mutilazioni, a una grande libertà espressiva con una patina ultramoderna.

La pista sarda

Il Mostro si concentra sulla prima parte dell’infinita inchiesta sull’assassino (o gli assassini) che uccise 8 coppie in 17 anni, dal 1968 al 1985. Indaga sulla pista sarda, con protagonisti Stefano Mele, Giovanni Mele, Francesco Vinci e Salvatore Vinci. Una scelta spiazzante, perché lontana nel tempo e nel ricordo degli italiani, ma all’inizio tutta l’indagine si è focalizzata su un gruppo di sardi trapiantati in Toscana e su un omicidio del 1968 che si collegherà solo negli anni ’80 ai delitti del «Mostro». 

E per un’unica circostanza: l’omicidio della coppia non presentava le caratteristiche degli altri (con l’infierire nel corpo della donna, con coltellate e mutilazione di genitali) ma fu compiuto con la stessa Beretta calibro 22, come dimostrano i proiettili con la serie H che hanno contrassegnato gli otto omicidi nel corso degli anni.

Un mondo antico e malato

La scelta di Sollima è di raccontarci questo ambiente rurale e patriarcale, dove si univa il rigore di tradizioni sessiste e violente – le donne venivano violentate e date in moglie senza il consenso -, il moralismo ipocrita sociale a una promiscuità sessuale che oltrepassava le soglie della morbosità e del patologico. 

Nelle interviste, il regista ha insistito su un punto di vista «femminista», a posteriori, sullo «sguardo maschile che è lo stesso, dal Mostro alle foto scandalo sui siti di questi giorni» e alla continuità con i tempi attuali: «Ogni giorno in Italia viene uccisa una donna».

Il consulente storico, Francesco Cappelletti, ha garantito – insieme all’ossessione per le carte giudiziarie di Sollima e del co-creatore Leonardo Fasoli – un’aderenza ai fatti storici e ai dettagli. La serie racconta un Paese arretrato, un mondo antico e malato che nascondeva preferenze sessuali e viveva di un familismo incestuoso e ricattatorio. Ma anche un’inchiesta tra le più difficili e piene di errori della storia italiana, resi possibili anche dalla pressione di un’opinione pubblica che chiedeva risposte immediate e pressava gli investigatori.

Vero o falso? 

Sollima non sembra voler concedere molto alla spettacolarizzazione degli omicidi, tutti raccontati con freddezza chirurgica, da perizia medico-legale. Non ci sono carrelli acrobatici, né si usa il linguaggio tipico del crime. L’aderenza al racconto rende le riprese in alcuni momenti quasi documentaristiche. Gli stessi personaggi non hanno un grande spessore psicologico, perché quello che conta è raccontare la percezione della storia nei diversi momenti dell’inchiesta. 

Non c’è neanche spazio per le vittime, perché il punto di vista è quella dell’assassino, che non le conosceva. Le trovava appartate in una strada di campagna e uccideva, infierendo sulle donne.

Lo spettatore assume di volta in volta il punto di vista del «mostro» e quello degli inquirenti. E come i magistrati e i poliziotti, è confuso. Le coincidenze si affastellano e non si distingue più quello che è vero, accertato, inconfutabile, e quello che è frutto di un racconto falso o di una deduzione logica ma arbitraria.

Compare Pietro Pacciani

Le quattro puntate si concludono con un Salvatore Vinci che fa perdere le sue tracce e sparisce nel nulla. E, guarda caso, i delitti finiscono. Una coincidenza, una delle tante, che non significa molto e che Sollima lascia come suggestione finale. Così come solo pochi secondi finali sono dedicati a un personaggio che sarà invece centrale nel filone d’indagine successivo: Pietro Pacciani.

La sua storia – condannato all’ergastolo, poi assolto, poi morto durante il secondo processo d’appello – si intreccia con quella di Mario Vanni e Giancarlo Lotti, che furono condannati, ma solo per alcuni dei delitti. Lasciando dubbi enormi e riaprendo infinite piste alternative, piene di coincidenze e suggestioni, sette sataniche comprese, ma mai provate davvero.

Il Mostro esce in un momento caldo, i 40 anni dall’ultimo delitto, ed è accompagnato da un gran numero di libri e di podcast, ognuno con una sua tesi da difendere. Sollima e Fasoli non ne sposano nessuna, anche se concentrarsi in queste quattro puntate sulla pista sarda è già una scelta di campo. 

Ma non è detto che non si vada avanti: se il pubblico capirà e apprezzerà il tratto autoriale della serie, arriveranno altre stagioni, stavolta inevitabilmente dedicate al Pacciani e ai suoi compagni. Il risultato, probabilmente, sarà lo stesso. 

Come ha detto lo stesso Sollima, nella presentazione della serie a Venezia, «il mostro, alla fine, potrebbe essere chiunque». E forse il senso dell’operazione sta in questo disorientare lo spettatore, creare e smontare false piste, moltiplicare i mostri possibili, fino a suggerire che un po’ di mostro, forse, è anche dentro di noi. 

21 ottobre 2025 ( modifica il 21 ottobre 2025 | 15:08)