di
Marco Imarisio

Due mesi dopo il vertice di Anchorage, quando venne descritto come la parte ragionevole dell’Occidente, le tv (controllate dal Cremlino) mandano in onda sfottò continui su Trump. Descritto come in balia di Putin. E ridicolizzato con pesanti allusioni alle sue capacità cognitive

A un certo punto, il Gerry Scotti dei propagandisti russi si produce anche nell’imitazione. «Quando dici che “sto pensando” di rifornire l’Ucraina di missili Tomahawk», e qui Vladimir Solovyov cerca di dare alla sua voce un tono simile a quello di Donald Trump, a essere sinceri con risultati rivedibili, «ma poi aggiungi che “prima ne devo parlare con Putin”, non rafforzi certo la tua posizione».

Com’è quella storia che anche gli orologi rotti almeno per due volte al giorno segnano l’ora giusta? «Se vuoi essere davvero credibile come negoziatore, prima mandi le armi, e dimostri di fare sul serio, poi chiami il tuo oppositore e gli dici “ora parliamo”. Le guerre si decidono con i fatti, non con le parole». A leggerla così, con le frasi quasi stenografate, sembrerebbe la lamentela di un sostenitore dell’Ucraina deluso dal recente voltafaccia del presidente americano. Invece, è l’analisi di Solovyov, altrimenti soprannominato «La voce del Cremlino» anche a casa sua, il più popolare tra i megafoni televisivi del potere russo. Ma è il modo in cui la scena si svolge, in diretta su Rossiya-1, che dice molto del contesto. Perché si tratta di una notevole presa per i fondelli di Trump, una serie di sfottò approvati con ampi cenni di assenso da tutti gli ospiti in studio, tra i quali due deputati di Russia Unita, il partito di Vladimir Putin.



















































«Signor Trump, lei è un fesso». «Come si permette?» «Mi scusi. Lei è un fesso, ma un incomparabile, eccezionale, inimitabile fesso». «Ah beh, allora è un altro paio di maniche. Premiate subito questo ragazzo!» 
La delegittimazione dell’Impero americano comincia a Mosca. Non era mai successo di sentire in prima serata una barzelletta del genere su un presidente straniero. In un Paese dove la deferenza verso il potere costituito è nel codice genetico dei suoi abitanti, e dove le beffe ai danni dei leader propri e stranieri, amici o nemici, sono sempre state confinate al passaparola, ai tempi della stagnazione brezneviana, e oggi ai meme in poche e ben securizzate chat. E invece. Altro talk show, questa volta la striscia quotidiana formato famiglia condotta da Olga Skabeeva, altra facezia, da parte di uno degli ospiti in studio. «Budapest. Si incontrano i due presidenti. Trump dice: “Allora, Vladimir, ti prendi Odessa, Kherson, Zaporizhzhya, tutto il Donbass, metti pure l’Alaska nel conto e finisci questa guerra». Putin si alza, stringe la mano a Trump, e dice: «D’accordo, ma tu che cosa mi dai in cambio?» Risate, applausi, arrivederci a domani.

Sono passati appena due mesi, ma si sentono tutti. Esiste una differenza sostanziale tra il modo in cui ad agosto venne presentato dai media e dalla politica il primo incontro tra Putin e Trump in Alaska e come viene ora introdotto quello di Budapest. Ognuno di questi due incontri è stato ovviamente descritto come «il capolavoro di Putin», che nell’ultimo caso solo alzando il telefono ha fatto cambiare idea al suo omologo americano sull’invio di nuove armi a Kiev. Ma il gioco facile che sembra avere il presidente russo ha come conseguenza un deciso cambio di tono verso il suo interlocutore privilegiato. Mentre ai tempi dell’Alaska le istruzioni per l’uso di Trump dicevano di trattarlo con rispetto, e lo facevano descrivere come la parte ragionevole dell’Occidente, per quanto lunatica, ora sono giorni che Trump viene letteralmente ridicolizzato.

Mosca non crede nemmeno più a Trump. La televisione rappresenta l’anello principale della catena di comando comunicativa del Cremlino. E le perplessità, stiamo usando un gentile eufemismo, che si sentono e leggono sulle capacità cognitive del presidente americano, indicano che questa volta le linee guida sono ben diverse. È come se dopo la riunione del Nuovo Mondo multipolare a Pechino, l’opinione pubblica russa sentisse di avere varcato il Rubicone. «Trump cercherà di sfruttare la situazione per inserirsi tra Russia e Cina, ma farà un fiasco, perché i rapporti tra Putin e Xi non sono solo di fiducia, ma anche consapevolmente strategici» scrive l’agenzia statale Ria Novosti. Liberi tutti, insomma, nel nome di un antiamericanismo che rimane ancora ben radicato nella società russa. Ma se l’interpretazione più credibile di questa tendenza riguarda una valutazione della figura di Trump, ne esiste un’altra che considera la messa alla berlina del presidente Usa una mossa di Putin, che vorrebbe presentare un eventuale cessate il fuoco come una decisione sua e soltanto sua, una concessione che non deriva dalle pressioni di nessuno. Se fosse davvero così, ed è lecito dubitarne, la pace varrebbe bene qualche pernacchia russa a Trump.

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21 ottobre 2025 ( modifica il 21 ottobre 2025 | 17:35)