Non è solo la nostalgia per gli anni Novanta, è il fatto che Nove, Scarpa, Ammaniti, Santacroce e tutti gli altri han fatto, ognuno a modo suo, quel che nessun altro fa fatto negli ultimi trent’anni. E un documentario, sia pur di testimonianza, ci sta. È stato presentato alla Festa del Cinema di Roma e noi l’abbiamo visto.

Ho la fortuna di appartenere alla Generazione X. E quindi, ho avuto la fortuna di vedere i miei vent’anni coincidere con gli anni Novanta, che sono stati l’ultimo grande decennio della contemporaneità. A parlare non è (solo) la mia nostalgia, quella nostalgia che è stata inventata proprio dalla mia generazione, ma (anche) la Storia. Cardine tra la fine di un secolo e l’inizio di un’altro, nati dalle macerie dei muri e delle ideologie e proiettate verso un nuovo Millennio gravido di promesse (passate), gli anni Novanta surfavano su quel che rimaneva della spinta edonista e nevroticamente entusiasta degli Ottanta attraverso un panorama incerto e vagamente post (o pre) apocalittico, fatto di quel restava del passato e di un futuro incerto ma nascente (con Internet stava emettendo i primi vagiti ) che veniva osservato e raccontato con uno sguardo disincantato e nichilista un po’ spietato, che però spesso veniva ammorbidito dall’ironico distacco della condizione pienamente postmoderna. Per dirla con Douglas Coupland, cui di deve la definizione di Gen X: “La storia era finita, e la sensazione era ottima”.

Fatto sta che gli anni Novanta sono stati gli anni di un clamoroso fermento culturale. In tutte le arti: musica, cinema, letteratura. Perfino la televisione, grazie a MTV, di cui in queste ore celebriamo con tristezza il funerale, era un luogo di sperimentazione e avanguardia. E tutto questo perfino in un paese come il nostro, un po’ appoggiato troppo comodamente sul suo più o meno recente o glorioso passato.

Fermento quindi: nel cinema un pochino ma non troppo (e su questo bisognerebbe riflettere), molto nella musica (pensate solo a C.S.I., Mau Mau, Üstmamò, Marlene Kuntz, Afterhours, Bluvertigo, Virginiana Miller, Massimo Volume, per non parlare dell’emersione dell’hip hop e delle posse), e forse ancora di più nulla letteratura. Perché a movimentare la scena un po’ polverosa delle lettere italiane, ecco arrivare quelli che, grazie alla celebre antologia pubblicata, con qualche scandalo, da Einaudi, divennero famosi come i Cannibali.

Se nel 1991 Bret Easton Ellis pubblicava “American Psycho”, a casa nostra, figli di quell’idea di letteratura ma anche del mondo del fumetto, del cinema horror e di quello appena terremotato da Tarantino, della club culture e dalla televisione, dall’idea feticistica di merce che andava emergendo e affermandosi, ecco esordire gente come Aldo Nove, Isabella Santacroce, Tiziano Scarpa, Niccolò Ammaniti, Alda Teodorani.

Io, negli anni Novanta dei miei vent’anni, li leggevo tutti, e ne ero galvanizzato. Raccontavano il mondo che mi circondava, e che vedevo giorno dopo giorno, proprio come lo vedevo io. Se ne fregavano del moralismo snob e perbenista con cui erano accolti da alcuni, e facevano tutti la loro cosa, che era diversa da quella di tutti gli altri, anche da quelli che appartenevano allo stesso movimento. Nove è diverso da Ammaniti che è diverso da Scarpa che è diverso da Santacroce. Per dire.

E però, fa bene Paolo Repetti in questo documentario che si chiama Cannibali, a dire che loro, quei giovani scrittori che con Severino Cesari Repetti pubblicò nella celebre antologia “Gioventù Cannibale”, sono stati l’ultimo movimento letterario che abbia animato la letteratura del nostro paese.

Giusto quindi che arrivi un documentario a raccontarli. A farli raccontare, visto che Aldo Nove (anche sceneggiatore con la regista Hilary Tiscione) è tra gli intervistati, assieme a Tiziano Scarpa e Alda Teodorani. Ci sono anche non cannibali come Emanuele Trevi e Raul Montanari, critici come Marino Sinibaldi, tante immagini di repertorio che ricordano come, negli anni Novanta, in tv, nella tv generalista, si poteva ancora dibattere di letteratura, oltre che vedere Ciprì e Maresco.

Certo, la lingua del cinema è elementare, piatta, appunto televisiva. Ma qui a contare è la parola, la letteratura, e la nostalgia; e allora va bene lo stesso.