L’aggressione della Russia all’Ucraina sta già costando molto anche a noi. E la guerra di Putin a Kyiv è una guerra contro l’Europa non solo militare (guerra ibrida, droni, sabotaggi, assassinii, spie), ma anche economica. C’è una storia che lo racconta in maniera esemplare. E c’è di mezzo l’America, il Regno Unito, l’Italia. l’Eni.

Il 19 ottobre Kyiv ha colpito in maniera moto grave l’impianto di produzione e lavorazione del gas di Orenburg, in Russia, a 1700 chilometri dal confine ucraino. L’impianto è di proprietà di Gazprom, e è uno dei più grandi non della Russia, ma del mondo. Elabora almeno il 60% del gas lavorato da Gazprom (secondo alcune stime anche qualcosa in più), è in grado di lavorare fino a 45 miliardi di metri cubi di gas naturale e 6,2 milioni di tonnellate di condensato di gas/petrolio all’anno. Le immagini da Orenburg di ieri erano ancora impressionanti, un vastissimo incendio frutto di esplosioni ripetute, con una colonna di fuoco della forma di un fungo. Ma il danno a Orenburg ha menomato molto seriamente (intorno al 30%) anche la produzione di Karachaganak, il giacimento in Kazakistan che uno dei fulcri della politica estera italiana fin dai tempi degli accordi di Berlusconi con Putin, e che contribuisce a spiegare il perché delle assai amichevoli relazioni di Roma col Kazakistan.

Karachaganak è un giacimento enorme, gestito da un consorzio che comprende tra le sue partecipate Chevron (18%), la britannica Shell (29,25%) e l’italiana Eni (29,25%), oltre alla russa Lukoil (13,5%) e alla società kazaka KazMunayGaz (10%).

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Secondo due fonti che hanno parlato a condizione di anonimato a Reuters, e che La Stampa ha verificato indipendentemente con fonti industriali, la produzione di Karachaganak è scesa intorno alle 25.000 tonnellate (196.500 barili al giorno). Il livello abituale è 35.500 tonnellate. Perdere diecimila tonnellate al giorno è una danno molto rilevante, e tanto più grave quanto più prolungato sarà il taglio, per tutti gli azionisti.

Ancora la mattina di martedì 21 ottobre, le notizie viravano al pessimismo: il consorzio Karachaganak ha dichiarato di aver dovuto attuare una riduzione controllata dei volumi di produzione a seguito di un “incidente” presso l’impianto russo di Orenburg. Gli ucraini dicono senza mezzi termini che sono stati due droni ucraini sull’impianto di Orenburg a costringere il vicino Kazakistan a ridurre la produzione nel giacimento di Karachaganak del 25-30%. Già il 19 ottobre il Ministero dell’Energia del Kazakistan aveva comunicato che Orenburg aveva interrotto l’approvvigionamento di gas dal Kazakistan.

Le principali compagnie petrolifere, tra cui Chevron e Shell, hanno già confermato di aver dovuto ridurre la produzione di petrolio e gas nel giacimento del Kazakistan.

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Per capire di quali entità di oil parliamo, occorre pensare che Karachaganak nel 2024 ha prodotto circa 263mila barili al giorno di petroli, che viene esportato da una società specifica (Caspian Pipeline Consortium) attraverso un terminale russo sul Mar Nero. Il petrolio poi passa attraverso l’oleodotto russo Druzhba verso la Germania. Druzhba come noto è stata pesantemente affetta dal blitz ucraino nel Kursk, ma questa sarebbe un’altra storia, anche se evidentemente collegata. Il Kazakistan rappresenta circa il 2% della produzione mondiale di petrolio, la maggior parte del quale passa tuttora nei mercati mondiali attraverso la Russia. Benché sia tecnicamente oil kazako.

Da anni si parla – e l’Italia è abbastanza attiva in questi colloqui – di costruire un nuovo impianto di lavorazione del gas a Karachaganak, e il governo kazako ha già raggiunto un’intesa di massima con gli azionisti di Karachaganak. Fonti britanniche raccontano a La Stampa che la capacità dichiarata annua di lavorazione di gas del nuovo impianto a Karachaganak dovrebbe essere almeno 4 miliardi di metri cubi, ma c’è la speranza di arrivare anche a 5. La data di entrata in attività del uovo impianto è prevista per il 2028. E il consorzio, guerra o non guerra, non vuole certo fermarsi. Gli affari non puzzano, anche se bruciano.