Firenze, 21 ottobre 2025 – Un mostro attualizzato alle atrocità di oggi, che uccide l’uomo solo perché d’intralcio al suo obiettivo, la donna. Un mostro che ammazza per lavare il disonore, o perché dominato e schiavo “di un incubo di tanti anni fa”, per dirla con le parole che usò l’investigatore Ruggero Perugini in un quasi mitologico dialogo con il killer filtrato dalle telecamere. Un mostro ossessionato dal sesso, in diverse sue forme: omosessualità, voyeurismo, avventure estreme.

Eccolo, il mostro di Firenze. Su Netflix. Quattro puntate, che la piattaforma lancia in una data non casuale: il 22 ottobre, una notte in cui la calibro 22 del mostro ammazzò. Di nuovo. Era il 1981, a Calenzano, una stonatura temporale (l’unico delitto avvenuto in autunno) e geografica (la sola volta al di fuori delle due “comfort zone” dell’assassino, il Mugello e la Val di Pesa) ma che consacrò l’esistenza del male.

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La scena della serie in cui Stefano Mele confessa di aver ucciso la moglie

Ma la serie, firmata dal regista Stefano Sollima e Leonardo Fasoli, si apre temporalmente nell’estate successiva, quella del 1982. Quando il mostro compie un altro duplice omicidio (a Baccaiano), ma quando soprattutto avviene il collegamento (mediante la compatibilità di arma e proiettili) con un ulteriore assassinio oltre a quelli noti: l’uccisione di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco a Castelletti di Signa nell’agosto del 1968. In macchina c’era anche Natalino, il figlio della Locci, scampato al killer o salvato da questi, rebus che resta irrisolto. Investigativamente, si chiama la pista sarda perché andò a scavare (senza successo, va ricordato) nel clan vicino al manovale immigrato dalla Sardegna Stefano Mele, unico condannato, con tanti dubbi, per l’esecuzione del 1968.

Cinematograficamente, è il nocciolo delle quattro puntate sinora prodotte. Sollima dipana il suo racconto – inserendo anche il punto di vista degli inquirenti, la pm Silvia Della Monica, il procuratore Piero Luigi Vigna, il giudice istruttore Mario Rotella – attraverso un possibile mostro per ogni episodio (Mele e il fratello Giovanni, Francesco e Salvatore Vinci che furono entrambi amanti della vittima). Ognuno avrebbe avuto un movente intimo per volere l’eliminazione di quella donna. E questo rende i quattro protagonisti a loro modo “mostri”, in un contesto sociale dove essere femmina non è come essere uomo.

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Salvatore Vinci e Barbara Locci nella serie Netflix

Barbara Locci è la figura centrale: forse nessun cameriere le ha mai versato il vino al bistrot come quando sogna di fuggire insieme a Francesco Vinci, forse la vera Barbara non si è mai fatta un taglio alla moda che fa imbestialire il marito, o ha fatto shopping in boutique prima di un incontro galante, ma attorno alla sua figura gira ogni episodio. Forse, nella narrazione, più emancipata rispetto alla realtà degli anni ’60. Ma anche nella fiction prende ordini da ogni maschio che frequentava la sua casa.

Nel suo viaggio nella comunità sarda (con tanto di sottotitoli ai dialoghi interni al ’clan’) Sollima non consegna agli spettatori l’assassino delle coppie, ma si ha la sensazione che se qualcuno è più mostro di altri, quel qualcuno sia Salvatore Vinci. Si ha infatti l’impressione che questi sia il padre naturale del figlio di Barbara (e questo lo pensavano in tanti, prima della notizia di questa estate sulla paternità biologica di Natalino, tant’è che Giovanni, il terzo fratello dei Vinci e vero padre, la serie non l’ha proprio contemplato) e prima che le puntate si chiudano con l’arrivo in lontananza di Pietro Pacciani, la fuga, misteriosa, di Vinci viene associata alla fine dei delitti.

Epilogo che lascia comunque intuire che potrebbe esserci un seguito. Sulla stagione dei compagni di merende e sui processi. Anche se mettere un punto alla storia del mostro, sarà impossibile.