Ornella Muti ne è certa: «Tutti desiderano che arrivi un momento in cui la gente ti vuole, ti ama e ti adula ma io non ho mai mirato a quello. Le star non sono eterne: come per tutte le cose c’è un inizio, un apice, una caduta e forse una risalita, ma se non avessi avuto dei punti di riferimento intorno a me probabilmente mi sarei persa, imbottita di Xanax». A parlare è Francesca Rivelli che, nella sua autobiografia Questa non è Ornella Muti, pubblicata da La nave di Teseo, spiega che quel nome d’arte che le è stato affibbiato quando era ancora una ragazzina è stato sia la sua conquista che la sua condanna più grande. «Il nome Ornella Muti mi è rimasto attaccato addosso come un’ombra, un parassita che usa il mio corpo ma, per quanto possa lamentarmene, io sarò sempre sia Francesca che Ornella. Con quest’ultima sono più attenta a come mi muovo, a quello che dico e a quello che faccio perché ci sono delle persone che si aspettano delle cose da me. Francesca è quella che vedo tutti i giorni davanti allo specchio e che non mi dispiace trovare ogni tanto gonfia o stanca», racconta ancora Francesca, 70 anni compiuti quest’anno, dal cascinale tra le colline dell’Alto Monferrato nel quale vive insieme a sua figlia Naike, la sua primogenita che per tutta la durata dell’intervista le starà vicino.
Chi sono i suoi punti di riferimento?
«I miei figli e i miei nipoti, che mi danno forza e stabilità. Da bambina ho sofferto tanto: penso di essermi impegnata tanto nella vita per avere intorno una famiglia da amare e da chiamare per condividere una gioia e per alleggerirmi di un dolore».
Da bambina sua madre l’ha lasciata per un anno e mezzo in Germania da sua zia senza darle spiegazioni: aveva quattro anni.
«Pensiamo sempre che i bambini siano resilienti e si riprendano da qualsiasi cosa ma non è affatto così. Per quanto sembri paradossale non ce l’ho, però, mai avuta con mia madre perché non ha avuto altra scelta se non quella di lasciarmi andare anche se, lì per lì, non mi ha dato spiegazioni. Stava male, non aveva i mezzi per andare avanti, e se ha fatto quello che ha fatto è stato solo per il mio bene. Anche se ho sofferto non ho mai voluto che pensasse che avessi avuto un trauma per colpa sua. Non se lo meritava».
Pensa di essere cresciuta troppo in fretta?
«Col senno di poi non ho avuto né un’infanzia né un’adolescenza. L’adolescenza forse mi è mancata più di qualsiasi cosa perché non ho potuto scoprire il mondo e i ragazzi come la giovane donna che si affacciava al mondo che ero, ma non voglio piangermi addosso. La vita è come una giostra che ora ti fa stare bene e ora ti fa vomitare: è meglio concentrarsi sulle sensazioni positive che ti regala, altrimenti non vedrai l’ora di scendere. A 70 anni non voglio farmi trascinare più da niente e da nessuno: ho delle ferite che ogni tanto devo andare ad accarezzare perché si fanno sentire, ma se ci metto il carico da novanta non vivo più».