Tra i tanti che hanno chiuso la loro attività quest’anno c’è anche Kristian Sbaragli che a 35 anni appende la bici al chiodo. Il suo è un addio “soft”, al quale stava pensando già da tempo, conscio di aver regalato a questo sport gran parte della sua vita. Il corridore empolese chiude senza rimpianti, soddisfatto per quel che ha ottenuto in oltre 10 anni di carriera da professionista, un lasso di tempo lungo, che forse col passare degli anni diventerà una chimera per tanti.


La scelta non è stata un fulmine a ciel sereno: «Durante quest’anno avevo deciso che a fine stagione mi sarei ritirato. E quindi l’ho vissuta bene, anche se c’è sempre un po’ di dispiacere perché alla fine vado in bici da quando avevo 7 anni. Ma è stata una mia scelta e sono orgoglioso di poter avere avuto il privilegio di poter decidere quando fermarmi e capire che era il momento di voltare pagina».
E’ dal 2013 che sei professionista e ne hai viste tante in tutti questi anni. E’ un ciclismo che ancora rispecchia i valori che avevi tu?
Penso che i valori alla fine il ciclismo li mantiene sempre. E’ sempre questione di vittorie, di lotta da parte di tutte le squadre per ottenere il miglior risultato possibile. 13 anni fa come oggi. E’ cambiato tanto lo sport in sé, ho vissuto sulla mia pelle un cambiamento culturale davvero profondo.


Due vittorie da professionista, tutte e due nella Qhubeka. E’ stata quella la squadra dove ti trovavi meglio?
Sicuramente è stata la squadra che devo ringraziare più di tutti perché è quella che mi ha dato la possibilità di passare professionista e mi ha dato la fiducia di iniziare una carriera. Ho passato i miei primi 5 anni lì, credevano molto in me e mi hanno fatto crescere, quindi ho avuto il supporto per cercare di fare il massimo anche a livello di risultati personali. E’ stata la squadra dove sono riuscito a esprimermi meglio e dove comunque tante volte partivo per fare il leader e ho ottenuto tanti risultati, anche se ho vinto solo due corse.
Due vittorie, ma una di grosso peso, una tappa alla Vuelta. Che ti è rimasto di quella giornata?
E’ stata oggettivamente la più importante della mia carriera, perché venivo da un periodo dove avevo fatto tantissimi risultati, quella vittoria lì è stata un po’ la ciliegina sulla torta e la consacrazione di una stagione che comunque è stata molto positiva. Poi c’è stata una proiezione un po’ diversa a livello personale, per gli anni successivi, per quello che avrei potuto fare. Io avevo 25 anni, ero ritenuto giovane per un’età che oggi invece è già da corridore maturo, con magari già un quinquennio di esperienza fra i professionisti.


Tu da lì hai iniziato un lungo cammino che ti ha sempre tenuto, o nel WorldTour o nelle professional, in procinto di salire nella massima serie. Per farlo ti sei dovuto specializzare, hai dovuto magari anche mettere un po’ da parte le tue ambizioni personali e pensare alla squadra?
Sì, dalla vittoria alla Vuelta in poi, c’erano delle aspettative, ho fatto degli ottimi risultati. Oggettivamente però non ero un campione, non ero un super vincente perché ero veloce, ma mi piazzavo bene, non avevo lo spunto per vincere. Così mi sono specializzato nell’essere di supporto in determinate situazioni, non fare più le volate di gruppo e soprattutto quando poi sono andato alla Alpecin, lì il mio lavoro era quello proprio di arrivare nel finale della corsa e di aiutare i leader. Ho contribuito alla vittoria in tantissime gare e quelle vittorie le ho sentite un po’ mie.
Quanto è contato per te aver vestito la maglia azzurra?
Io non sono uno che conserva tantissime cose, ma a casa, in palestra, ho attaccato una maglia, quella della maglia della nazionale con cui ho fatto il mondiale nel 2023. Dove Bennati mi ha dato fiducia, in un ruolo di supporto alla squadra. Per me rappresentare la nazionale al mondiale è stato sicuramente un coronamento di una carriera. Sono stato riserva mondiale altre tre volte, ma senza correre. Mi ha dato una grandissima soddisfazione personale, quasi il coronamento di una carriera.


Tu hai ottenuto tutti i tuoi principali piazzamenti e vittorie prima del 2020, però poi c’è il quarto posto alla Coppa Sabatini del 2024. Come la dimostrazione che comunque certe qualità c’erano ancora…
Sì, sicuramente gli ultimi due anni ho cercato di fare la mia gara molte più volte rispetto a quando ero alla Alpecin dove c’era gente come Van der Poel, Philipsen e Merlier. Il 2024 è stato un anno dove oggettivamente a livello personale penso di essere stato sempre molto competitivo. Quel giorno a Peccioli, che fra le altre cose è anche una gara “di casa” perché è a 30 chilometri da casa mia, se avessi fatto podio sarebbe stato ancora meglio. Ma è stata una bella dimostrazione che ero ancora in grado di fare risultato.
Il capitano con cui ti sei trovato meglio?
Van der Poel, alla fine abbiamo fatto due Tour de France in camera insieme e oltre a essere un grande campione è comunque anche una persona molto umile e che ha il grande merito di saper tirar fuori il 110 per cento dalla squadra, sa motivarla come nessun altro. Ti fa vedere che anche lui, anche quando non ha la giornata super, comunque è in grado sempre di dare il suo massimo.


Ora dove ti troveremo?
A livello di ciclismo professionistico vorrei staccare un po’. Vorrei invece dare una mano al ciclismo e rilanciare la società ciclistica a Castelfiorentino dedicata ai giovanissimi, la squadra del mio paese. Dal prossimo anno me ne occuperò personalmente e cercherò di riportare in bici il più grande numero di bambini possibile, perché la mancanza dei più piccoli secondo me è un grosso problema, alla base della crisi del nostro movimento.