I meccanismi dell’immedesimazione e dell’empatia sono spesso contorti e imprevedibili. Certo non mi hanno lasciato indifferente le immagini dell’asilo colpito da un drone russo a Kharkiv, che mi sono capitate sul telefono ieri, giusto poco prima di uscire per andare a prendere mia figlia al nido. Ma l’effetto più forte, lo confesso, me lo ha fatto quello che ha scritto su Facebook, da Kyjiv, Nona Mikhelidze, a proposito della scorsa notte: l’allarme antiaereo che suona all’una e costringe tutti a uscire, al buio e al freddo, per raggiungere i rifugi, e qui aspettare oltre un’ora che il bombardamento finisca, per poi tornare a casa, alle due e mezzo del mattino, sentire di nuovo la sirena alle 3.28 e dover scegliere se rischiare la vita restando a letto o rischiare di impazzire facendo avanti e indietro ancora una volta, e così di nuovo con l’attacco delle 4.48, durato fino alle nove del mattino, quando per gli ucraini è ormai ora di uscire per andare al lavoro. «E tutto questo continua da quasi quattro anni». Mi ha colpito leggere queste righe mentre nel nostro parlamento si discutevano le mozioni sul sostegno all’Ucraina, e il Movimento 5 stelle in particolare chiedeva di smettere di inviare le armi usate per intercettare missili e droni russi puntati contro case, asili e ospedali, avendo pure la faccia tosta di sollecitare in cambio «le misure di sostegno umanitario e gli aiuti alla popolazione civile» (lasciamo che ti bombardino casa, ma in compenso ti regaliamo i cerotti: come siamo buoni, vero?), mentre suoi autorevoli esponenti rilanciavano l’ipotesi di togliere le sanzioni alla Russia, nel giorno in cui persino Trump si decide finalmente a metterne di nuove (vedi il Putinometro all’inizio di questa newsletter).

Peraltro giusto ieri nel Parlamento europeo il Movimento 5 stelle si è anche astenuto sulla mozione che definiva Aleksandr Lukashenko un dittatore, mentre la stessa Unione europea consegnava il premio Sacharov a due giornalisti dissidenti attualmente in carcere per aver fatto il proprio lavoro, Andrzej Poczobut e Mzia Amaglobeli, l’uno proprio in Belarus e l’altra in Georgia, il paese che il partito filo-russo al potere sta cercando di trasformare in una seconda Bielorussia. Giustamente la vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picierno, ne ha chiesto conto ai geniali strateghi del campo largo che affollano il suo partito, dove tuttavia simili questioni di principio non sembrano occupare, come dire, i primissimi posti nella scala delle priorità politiche e morali del gruppo dirigente (sicuramente vengono molto dopo le sorti delle elezioni regionali in Campania, affidate a un candidato grillino come Roberto Fico, di cui sarei tentato di citare la definizione fornita recentemente, in un’intervista al Foglio, da Natalia Aspesi, di matematica esattezza).

Il fatto è che personalmente soffro moltissimo la carenza di sonno, e penso quindi che in una situazione come quella in cui tanti ucraini vivono da quasi quattro anni non sarei sopravvissuto a lungo. Al quarto giorno di un simile trattamento probabilmente non avrei nemmeno sentito le sirene, o mi sarei addormentato lungo la strada per il rifugio, appoggiato a un muro. E poi penso alle risibili argomentazioni utilizzate non solo dai cinquestelle, ma anche da tanti esponenti della sinistra, per non parlare di giornalisti, intellettuali, politologi e geopolitologi assortiti, secondo i quali il problema è che la nostra opinione pubblica ormai è «stanca» di questa guerra. Probabilmente è proprio per questo che preferiamo continuare a dormire, senza essere disturbati.

Questo è un estratto di “La Linea” la newsletter de Linkiesta curata da Francesco Cundari per orientarsi nel gran guazzabuglio della politica e della vita, tutte le mattine – dal lunedì al venerdì – alle sette. Più o meno. Qui per iscriversi.