di
Greta Privitera

Nei sondaggi supera ogni leader palestinese

DALLA NOSTRA INVIATA 
RAMALLAH – Qadura Fares ha un rimorso. È il 2004. Dalla sua cella, Marwan Barghouti annuncia di volersi candidare per sfidare Abu Mazen, nelle elezioni presidenziali palestinesi del 2005, dopo la morte del leader Yasser Arafat. La notizia agita la base di Fatah. «Abu Mazen sapeva che eravamo amici e mi ha chiesto di andare nella prigione israeliana di Hadarim per convincerlo a ritirarsi», racconta l’ex ministro dei Detenuti dell’Autorità palestinese, dalla sua casa di Silwad — «città della resistenza» — a nord-est di Ramallah. Fares chiede di incontrarlo nell’ufficio del direttore «perché non sopportavo di vederlo dietro le sbarre», spiega mentre si accende la quinta sigaretta. «Abbiamo litigato. Gli ho detto “ma se ti votano cosa puoi fare per la Palestina dalla cella?”. E lui mi ha risposto: “E Abu Mazen dalla Muqata?». Sorride: «Marwan aveva ragione. In questa ultima tregua ci avevamo creduto, ma la sua ennesima non scarcerazione è un colpo al cuore».

Da 23 anni in carcere, condannato a cinque ergastoli con l’accusa di essere il mandante degli omicidi di quattro israeliani e un monaco greco, Barghouti si è sempre dichiarato innocente. Per Israele è un terrorista, per i palestinesi è un eroe della resistenza, l’uomo in grado di riunire il popolo.



















































Il suo nome rispunta ogni volta che ci si siede ai tavoli per firmare accordi tra il governo israeliano e l’Anp o Hamas. Quel «Barghouti» fa dentro e fuori dalle liste dei prigionieri da liberare negli scambi, nelle concessioni, nelle trattative: ma la storia si ripete e la sua cella non si apre. «È sempre stato temuto, tanto dai governi israeliani, soprattutto da Netanyahu, quanto dalla leadership palestinese: chiedono di liberarlo, ma quando non succede non lottano per reclamarlo», continua Fares. «Con lui ci sarebbe la pace: crede nella soluzione dei due Stati».

In passato alcuni leader israeliani hanno intravisto in Barghouti la possibilità di un dialogo. Era il 2006. Hamas aveva appena preso il potere a Gaza e Ehud Olmert guidava Israele.

In un tentativo di arginare l’ascesa del gruppo islamista, il governo israeliano teneva stretti contatti con Abu Mazen: l’intento era quello di rafforzare l’Anp contro Hamas. Amir Peretz, ministro della Difesa, dichiarò a una radio che si stava considerando il rilascio di Barghouti, mai avvenuto. Stessa sorte nel 2008. Centocinquanta i prigionieri palestinesi liberati da Olmert e anche qui, per un attimo, la speranza che fosse nella lista.

È entrato e uscito anche in quella del 2011, dove 1.027 prigionieri palestinesi — tra cui Yahya Sinwar, l’architetto del 7 ottobre — sono stati scarcerati in cambio di Gilad Shalit, il caporale dell’esercito rapito da Hamas. Dichiarava il laburista Benjamin Ben-Eliezer, allora ministro per le Infrastrutture: «Barghouti è il miglior interlocutore che possiamo avere per raggiungere un accordo di pace». Anche dalla cella, in tutti i sondaggi supera qualunque altro leader palestinese. Nel checkpoint di Kalandia, confine militarizzato tra Gerusalemme e la Cisgiordania, il suo volto è un graffito sul muro, accanto a quello di Arafat. I due leader sono esposti vicini in tutte le bancarelle dei mercati di Ramallah.

L’ultima volta che è stato visto, è apparso in un video dove, smagrito e invecchiato, veniva umiliato dal ministro di estrema destra Itamar Ben Gvir, che ieri è di nuovo tornato in una prigione per mostrare, orgoglioso, le condizioni dei detenuti, e a invocare per loro la pena di morte. La famiglia denuncia le gravi torture che Barghouti starebbe subendo. Si chiedono: sarà Donald Trump a liberarlo?

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24 ottobre 2025