Donald Trump dovrebbe incontrare Xi Jinping giovedì in Malesia, ai margini del summit multilaterale dell’Apec (paesi dell’Asia-Pacifico). I due parleranno soprattutto del contenzioso commerciale bilaterale, dazi e dintorni: la Casa Bianca prepara quell’incontro con un corposo dossier sulle inadempienze cinesi rispetto ai passati accordi, quando Pechino già si era impegnata ad aprire il proprio mercato e a ridurre il surplus commerciale. Questo attivo cinese, peraltro si sta già riducendo sostanzialmente, per effetto dei dazi già in vigore che sono attorno al 30%. 

Nella lunga agenda dell’incontro ci sarà spazio anche per le ultime sanzioni con cui Trump ha colpito le importazioni di petrolio russo. La Cina ha protestato contro quelle sanzioni, che ha definito illegali. Al tempo stesso, il governo di Pechino ha dato ordine ai grandi enti di Stato energetici di cessare ogni acquisto di greggio dalla Russia.



















































Siamo di fronte a un tipico caso di sanzioni secondarie che confermano il ruolo dominante del dollaro nell’economia internazionale, e spiegano perché da vent’anni la Cina tenta disperatamente di minare quel ruolo, senza riuscirci. 

La ragione principale per cui le sanzioni americane sono efficaci erga omnes, sta appunto in questo: chi le viola rischia di essere tagliato fuori dal circuito del dollaro, che è l’ossigeno degli scambi e di tutte le transazioni internazionali. Anche le multinazionali cinesi, e ancor più le banche che le finanziano, corrono grossi rischi se violano le sanzioni. Tuttavia gli esperti della Cina sono concordi nel prevedere che la fine degli acquisti di petrolio sarà temporanea: quanto basta per far passare il summit con Trump e trovare delle scappatoie per ricominciare a comprare petrolio russo. Ai prezzi scontatissimi che Xi ha imposto a Putin, privarsi di quel petrolio sarebbe un grosso sacrificio.

Per adesso, sta di fatto che Trump con queste sanzioni ha varato un castigo che Joe Biden non aveva mai voluto introdurre. La presunta amicizia con Putin si è trasformata in un braccio di ferro vero

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Ma la durezza della punizione può davvero cambiare le sorti del conflitto in Ucraina? È poco probabile. Putin sta infliggendo danni tremendi al proprio popolo e all’economia russa, oltre alle sofferenze che impone agli ucraini. Queste sanzioni di Trump renderanno ancora più debole l’economia russa, ma non abbastanza da cambiare il corso della storia: è la previsione che fanno alcuni dei miei esperti di riferimento, in particolare la squadra di analisti di geoeconomia di Eurasia Group (in particolare Pietro Guglielmi, Dani Podgoretskaya, Alex Brideau, Clayton Allen, Gregory Brew). Ecco la loro valutazione.

L’impatto potenziale delle sanzioni di Trump sul petrolio russo varia parecchio: «da trascurabile a 80 miliardi di dollari l’anno», in mancati introiti da esportazioni. Questo limite superiore equivarrebbe a circa il 3% del PIL russo e comporterebbe un ammanco pari al 9% del bilancio federale da 450 miliardi di dollari (poiché circa metà dei proventi energetici confluisce allo Stato sotto forma di tasse). Qualsiasi deficit di bilancio risultante costringerebbe il Cremlino a scegliere una combinazione di prelievo dai fondi sovrani di riserva, inasprimento fiscale, indebitamento e monetizzazione del debito. Quest’ultima opzione aggraverebbe l’inflazione e rischierebbe di provocare ulteriore malcontento nel paese.

L’esito più probabile si colloca nella fascia bassa della stima. Le sanzioni contro Rosneft e Lukoil mettono a rischio fino alla metà delle esportazioni via mare di greggio e prodotti raffinati russi. Se fossero pienamente applicate, le perdite di entrate potrebbero raggiungere 7 miliardi di dollari al mese (circa 80 miliardi all’anno). Dato che metà di queste entra nel bilancio federale tramite imposte e dividendi di Rosneft, la perdita fiscale potenziale si aggirerebbe sui 40 miliardi di dollari annui — circa l’1,5% del PIL, o il 9% del bilancio federale. L’impatto fiscale sarebbe in parte compensato dal rialzo iniziale dei prezzi del petrolio, aumentati del 5% fino a 65 dollari al barile, e destinati a restare elevati se le esportazioni di greggio russo calassero e venissero sostituite da fonti alternative.

La pressione economica da sola difficilmente indurrà Mosca a un cambio di rotta. Come ha dichiarato lo stesso Putin il 23 ottobre, lui è disposto ad accettare sacrifici economici di lungo periodo per proseguire la guerra e non intende cedere alle pressioni statunitensi. Anche in presenza di forti tensioni economiche, finché non si verificherà una crisi improvvisa, il Cremlino manterrà le sue posizioni rigide. Inoltre, gli esportatori sembrano fiduciosi di poter aggirare le restrizioni — attenuando così l’effetto finanziario desiderato.

L’impatto concreto sulle esportazioni marittime di greggio dipenderà dalle strategie di elusione delle sanzioni e dall’eventuale adozione di misure secondarie. Gli stratagemmi — come il cambio di bandiera delle petroliere, l’uso di intermediari non sanzionati e l’espansione dei sistemi di pagamento non basati sul dollaro — potrebbero mantenere il flusso di petrolio e limitare il danno fiscale. Tuttavia, i maggiori costi di transazione e gli sconti più elevati eroderebbero i margini di profitto, esercitando una pressione graduale sulle entrate del Cremlino. In base a precedenti esperienze di sanzioni petrolifere statunitensi, quando Washington ha imposto misure secondarie solo a pochi acquirenti marginali, anche le nuove sanzioni attuali sembrano destinate più a colpire che a spezzare la macchina delle entrate petrolifere russe.

Gli attacchi ucraini hanno un impatto marginale, ma se intensificati potrebbero amplificare gli effetti delle sanzioni. Gli attacchi di Kiev contro raffinerie e infrastrutture energetiche russe aumentano la pressione, ma al momento provocano perdite di pochi miliardi di dollari l’anno, ammesso che il livello attuale di danni si mantenga. La produzione di raffinati è scesa di circa il 10% (500 mila barili al giorno), a meno di 5 milioni di barili giornalieri dall’estate, con la Russia che compensa esportando più greggio invece dei prodotti raffinati a maggior valore aggiunto. Se questo andamento persistesse, il Cremlino perderebbe fino a 3-4 miliardi di dollari l’anno in profitti (0,2% del PIL).

In uno scenario in cui gli attacchi ucraini dimezzassero la capacità di raffinazione russa (2,5 milioni di barili al giorno), le perdite di profitto salirebbero a un minimo di 10-15 miliardi di dollari annui se tutto il greggio venisse comunque esportato, o fino a 40 miliardi se il greggio non potesse essere reindirizzato e i ricavi d’esportazione andassero completamente perduti. Tuttavia, gli attacchi attuali causano solo interruzioni temporanee, non distruzioni durature della capacità di raffinazione. Per produrre conseguenze fiscali significative servirebbero attacchi prolungati e più intensi — soprattutto con sistemi a lungo raggio.

Le sanzioni contro Rosneft e Lukoil difficilmente spingeranno la Russia oltre la soglia di dolore politico, ma potrebbero erodere ulteriormente i cuscinetti fiscali e ridurre il margine di manovra del Cremlino in caso di crisi economica. Sebbene Mosca disponga ancora di risorse per assorbire shock fiscali, la combinazione di rallentamento economico, calo dei ricavi energetici, spese belliche persistenti e possibili passività contingenti potrebbe costringerla a scelte fiscali difficili.

Putin cercherà di evitare misure visibilmente impopolari come il taglio delle pensioni, una forte svalutazione del rublo o un’inflazione fuori controllo. Tuttavia, un calo prolungato e significativo delle entrate, specie se combinato a una recessione, potrebbe rendere necessarie misure più impopolari e quindi generare malcontento sociale

Segnali da monitorare: ritardi o congelamenti nei pagamenti di Welfare, aumento dell’inflazione o riduzioni dei salari dei dipendenti pubblici. Questi sviluppi potrebbero modificare l’equilibrio costi-benefici di Putin nel proseguire la guerra.

Conclusa questa analisi degli esperti sull’aspetto economico-finanziario, devo aggiungervi l’elemento politico. Putin ha già inflitto danni enormi alla Russia: il paese è militarmente più insicuro di quanto fosse prima del febbraio 2022, ha reciso legami benefici con l’Occidente per consegnarsi alla Cina, ha perso influenza in Medio Oriente e in Asia centrale, e ha «costruito» una robusta nazione ucraina guadagnandosene l’odio per generazioni. Ma Putin probabilmente vede nella prosecuzione della guerra e dell’economia di guerra l’unica garanzia di stabilità del proprio regime. Una pace in Ucraina, o forse anche solo una tregua, darebbe la stura ad amari bilanci sul risultato di questi quattro anni. In un clima non più marziale e di mobilitazione bellica Putin verrebbe attaccato dai riformisti così come dai nazionalisti. Per non parlare del milione di reduci che tornerebbero a casa a guadagnare molto meno, e senza aver vinto nulla.

24 ottobre 2025, 15:35 – modifica il 24 ottobre 2025 | 16:52