La regista premio Oscar per “Nomadland” si mette sulle tracce della nascita dell’Amleto, raccontando il lutto del glorioso drammaturgo e di sua moglie Agnes, dal quale scaturì uno dei suoi capolavori più celebrati

Durante una rassegna di cinema internazionale della portata della Festa del cinema, è inevitabile chiedersi, soprattutto per il momento storico che stiamo vivendo, quale sia il ruolo della settima arte oggi, per scuotere le coscienze, analizzare i mali di questo tempo. A questa domanda ha risposto la regista cinese, premio Oscar per Nomadland, Chloé Zhao che, con il suo quinto film, Hamnet, presentato alla Festa e in uscita il 5 febbraio 2026 con Universal Pictures, riscopre la natura primaria del teatro e del cinema come rito collettivo per riscoprire il loro potere curativo.

Dopo il passo relativamente falso di Eternals, Zhao traspone il romanzo omonimo di Maggie O’Farrell sulla genesi dell’Amleto di William Shakespeare, raccontando la storia personale del drammaturgo, l’amore per la moglie Agnes, sullo schermo interpretata da Jesse Buckley e la tragedia che li colpì, la morte prematura del loro unico figlio maschio, Hamnet. Il film ci presenta Agnes come una creatura ribelle e legata ai boschi e alla terra, come sua madre prima di lei, una donna profondamente in contatto con la natura, quasi una ninfa, strega, meteorologa. Incontra il giovane Will, un Paul Mescal come sempre intenso, insegnante di latino dei suoi fratelli e contro ogni volere, i due coronano il loro sogno d’amore con tre meravigliosi bambini. Proprio quando William è ormai sempre più lontano dalla famiglia, nella Londra delle grandi possibilità del teatro, Hamnet si ammala di peste e muore tra le braccia della madre impotente e le sorelle incredule. Ed è lì che Chloé Zhao ci mostra le declinazioni del dolore e il modo in cui William prova a incanalarlo nell’arte per provare a continuare a vivere, mentre Agnes sembra annullata.

L’essere o non essere dell’Amleto diventa per la prima volta profondamente ed emotivamente comprensibile a qualsiasi sguardo e a qualsiasi latitudine, perché ci si chiede se si possa sopravvivere al più grande dolore che un essere umano possa provare, quello per la perdita di un figlio. La risposta Zhao la trova nel pianto collettivo degli spettatori di un’opera, nelle mani tese a sostenere e condividere la disperazione di un genitore. Tra i momenti più intensi e memorabili del film, l’urlo di dolore di Agnes all’ultimo respiro del figlio, lo stesso che ci ricorda le troppe morti insensate di bambini a cui assistiamo in questo momento. Questo film aveva anche un intento consolatorio in tal senso?

Riflette: “Tendo a non pensarci quando creo, devo essere presente e lasciare che ciò che accade nel momento mi guidi, senza imporre la mia visione o ciò che penso di cui il mondo abbia bisogno. Tuttavia, seguendo il momento presente vi faccio un esempio: lo scorso maggio, io e il mio direttore della fotografia siamo andati nel bosco a cercare location per il film. Proprio prima di andare in Polonia, ero a Kiev, in Ucraina, a seguire un amico che stava girando un documentario ambientato in una striscia di foresta sulla linea del fronte. Quando sono andata nel mio bosco in Galles, lui mi mandava filmati dalla sua foresta piena di mine, buchi nel terreno, trincee. Poi ho camminato nel mio bosco e ho visto buchi neri simili, creati naturalmente, e ho iniziato a piangere. Ho capito che il vuoto oscuro ci aspetta tutti, ci arriveremo in un modo o nell’altro. Anche se è inimmaginabile ciò che sta accadendo nel mondo, la divisione e tutto il resto, c’è qualcosa che ci connette. La cosa che temiamo di più, in modo consolatorio, ci connette tutti. È ciò che ci rende umani, e da quel compost, da quel vuoto, nasce nuova vita. Che tu viva in una cittadina pacifica in America o in una zona di guerra, la vita porta comunque dolore e non ci viene insegnato come gestire quelle emozioni in modo sano. Quell’urlo che fuoriesce da Agnes è legato al corpo, il quale sa che l’emozione è energia in movimento. Nei tempi antichi urlavamo partorendo, suonavamo i tamburi quando i guerrieri tornavano, danzavamo, non reprimevamo tutto. Secoli di restrizione del corpo ci hanno resi incapaci di esprimere in modo sicuro rabbia, collera, dolore e altre emozioni. Quindi, in quel momento, alcuni spettatori possono trovarlo insopportabile, perché se non si sono mai permessi di urlare, di esprimere il lutto attraverso il corpo, è difficile da guardare. Se non concedi quella libertà a te stesso, non puoi concederla agli altri, e questo si tramanda”.

Di tutt’altra fattura ma con sempre le donne al centro della narrazione è La lezione di Stefano Mordini, presentato nella sezione Grand Public, film a cavallo tra thriller psicologico e dramma giudiziario che racconta di una giovane avvocata triestina che, dopo aver difeso con successo un professore universitario dall’accusa di violenza sessuale, viene richiamata da questi per aiutarlo a ottenere la reintegra in cattedra, nella posizione che gli spettava. Contemporaneamente, dal passato della donna, spunta fuori l’ombra dell’ex compagno, un tempo condannato per stalking e che potrebbe essere tornato a perseguitarla. Con Stefano Accorsi e Matilda De Angelis il film arriva in sala con Vision Distribution il 5 marzo ed è tratto dal romanzo di Marco Franzoso. Ne parla Mordini: “Rispetto al romanzo ho lavorato sul racconto a due e mi sono concentrato sugli aspetti di incontro e attesa, elementi che già c’erano nel libro. Non amo isolarmi per scrivere ma stavolta lo abbiamo fatto in una casa in montagna, non è un metodo sempre sensato ma in questo caso specifico un ambiente ristretto ci ha aiutati a determinare gli spazi di racconto, una cosa molto importante”.

Matilda De Angelis descrive il percorso del film che analizza il passaggio sottile dal ruolo di vittima a quello di carnefice: “Il film si apre con Elisabetta, avvocata che difende il professore da un’accusa di violenza, scoprendo presto che ne è vittima anche lei. Così abbiamo indagato il rapporto tra stalker e vittima e le dinamiche manipolative che si instaurano. Quale tipo di violenza lo stalker mette in atto a livello psicologico? Elisabetta arriva a dubitare della sua stessa percezione della realtà. Il mondo maschile attorno a lei la mette a tacere. La vuole calmare, ma non rassicurare. Il suo percorso è arrivare alla realtà autentica, non a quella manipolata dalla violenza. C’è una realtà che lei percepisce e la verità si costruisce purtroppo a ritroso, spesso quando è troppo tardi, quando tutto ha drammaticamente trapassato il limite. Questo è un film su quello che accade prima”.

Qual è la lezione del titolo? “Ci sono due elementi nel film che raccontano il suo contenuto – risponde Mordini. La scena del bar in cui lei dice ‘mi manca un pezzo’, la seconda è quando lui dice ‘noi siamo uguali’ e lei risponde di no. Questo fa parte del meccanismo di manipolazione. Ti porta al di fuori degli elementi base della società. La soluzione per salvarsi da questo meccanismo è ancora da trovare. L’amore in nessun modo è possesso. Tu non sei mia, io non sono tuo. Questa è l’unica risposta che posso dare e che spero di essere riuscito a trasmettere nel film”.