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Paolo Mereghetti

Il regista francese rimarca con decisione la componente «romantica» del suo film, il secondo con protagonista Caleb Landry Jones

Perché tornare al mito del «non morto» assetato di sangue? Dopo il Nosferatu di Robert Eggers, ecco il Dracula – L’amore perduto di Luc Besson, a riprova che il personaggio inventato nel 1897 da Bram Stoker mantiene un fascino indubbio (e all’elenco delle recenti riletture anderebbe aggiunto anche quello di Radu Jude, visto a Locarno).

Per il regista francese, la spiegazione può essere nella sua componente «romantica», che il titolo (in originale Dracula – A Love Tale, in inglese nonostante la produzione francese) vuole decisamente rimarcare.



















































È infatti l’amore per la bella Elisabeta (Zoë Blue), morta mentre lui era in guerra, che spinge nel XV secolo il principe Vlad (Caleb Landry Jones) a maledire Dio e a diventare il vampiro Dracula.

E sarà sempre l’amore, quattro secoli dopo, a spingerlo nella Parigi della Belle Époque, quando scopre che Mina, fidanzata di un avvocato (Ewens Abid) finito ingenuamente nel suo castello transilvano, è la copia di Elisabeta (sempre Zoë Blue ovviamente).

Sceneggiatore unico, Luc Besson trasforma Lucy nella sua complice Maria (Matilda De Angelis) e il professore e cacciatore di vampiri Van Helsing in un prete (Christopher Waltz), ma soprattutto aumenta il ruolo dell’amore nell’epilogo del film.

In questo modo lo scontro tra Mistero e Conoscenza, tra Romanticismo e Scienza viene in qualche modo ribaltato, immaginando un finale che non è certo quello di Stoker, ma finendo in questo modo per attutire il fascino trasgressivo del non morto: se Eggers esagerava nel sottolineare l’irresistibile attrazione sessuale del suo Nosferatu, Besson ne fa una specie di Casanova raffinato e romantico. Fin troppo direi, così come sembra una macchietta il prete esorcista di Waltz.

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24 ottobre 2025 ( modifica il 24 ottobre 2025 | 20:49)