Immaginate i vostri pensieri, i ricordi, i sentimenti: tutto quello che non si può definire, pesare o toccare sospeso in aria, intorno a voi. L’intimità sfoderata, intrecciata in una scultura di fili e di oggetti immersi in una rete di relazioni. Una scarica di memoria.

Può essere meraviglioso o terribile osservare lo stato solido delle proprie esperienze, dipende da come ci si passa in mezzo, di certo è travolgente, cambia il rapporto tra persone e spazio ed è esattamente quel che succede dentro «The Soul Trembles». Dentro l’anima che trema messa in scena da Chiharu Shiota, artista giapponese inseguita dai musei e dai teatri del mondo e arrivata al Mao di Torino che si è aperto, di più, destrutturato, per lei e con lei.

Chiharu Shiota al Mao. Foto di Giorgio Perottino

 

Sale di profondo rosso e nero integrale, strati su strati di filo che gira in ogni dove, su più piani, per raccontare centinaia di storie. Sensazioni cosmiche ed emozioni personalissime, dalla macro installazione alla miniatura che spaventa per il grado di dettaglio di cui è capace: un tavolo coperto di particolari, una spazzola legata dal filo rosso a un micro lavandino dell’ampiezza della punta di un dito. E poi di nuovo giù, catapultati nell’enormità. Dentro un intero salone di valige basculanti appese ai nastri e non sono per forza viaggi e non sono tutte migrazioni, sono vite perché ogni grande fenomeno di massa è la somma dell’individualismo più estremo e qui entrambe le realtà sono rappresentate. Basta prendere il proprio filo anche se poi sarà impossibile seguirlo: proprio come nella quotidianità ci si distrae, ci si confonde, ci si perde, si devia, si torna indietro.

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Jenny Dogliani

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Shiota mostra i legami, come coniugarli sta a chi attraversa questo mondo, a chi aggiunge il proprio sguardo ed è impossibile non lasciarsi galleggiare. Al Museo di arti orientali, l’acqua non c’è, eppure si procede ondeggianti, privati del peso del corpo, ancorati all’anima che va a sbattere da tutte le parti perché riconosce di continuo qualcosa. Ogni lavoro nasce da un’idea precisa, eppure una volta srotolato il filo le motivazioni cambiano, assorbono conoscenza, scoprono punti di vista perché sono le interazioni a stabilire la traiettoria degli esseri umani. Si può scegliere o scartare, ma ogni decisione è motivata da un incontro o da un incrocio mancato, da un punto di riferimento perso. Sono i fili a tenere insieme i giorni. Shiota dà spiegazioni essenziali che non si sostituiscono all’impatto: «Abbiamo la nostra pelle su cui si imprimono gli anni, i nostri vestiti che sono un secondo strato e possiamo lavarli o perderli o buttarli ma finché esistono, in qualsiasi forma, portano memoria e quella resta anche nello spazio che abitiamo, il terzo strato». Il profondo inconscio si fa reale, tangibile: «Più ti allontani e più ti mescoli. Io non avevo mai ragionato sulla mia asiaticità, fino a che non mi sono trasferita in Germania».

Giorgio Perottino 

Shiota è nata a Osaka, vive a Berlino, dove si è trasferita per una residenza d’artista alla fine degli anni ’90 e dove è rimasta. In Giappone voleva solo dipingere e il rosso era già dominante, forse per questo quando ha capito di aver bisogno di materia e di vedere i ragionamenti per dare un senso alle azioni, si è coperta di smalto rosso. Un azzardo, era persino nocivo eppure in quelle scene splatter ha intuito la strada della sua creatività.

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Ha intrecciato il primo filo in «From Dna to Dna» del 1994, una performance in cui lei sta tra pavimento e cielo, avvolta da una sorta di cordone ombelicale agganciato al soffitto. Da lì inizia la ricerca, ma nei Duemila Shiota torna alla sua firma, il filo. Quando arriva il successo, è quasi costretta a metterlo in pausa: sta male. Cancro alle ovaie, poi la recidiva però lei non si ferma. Si cura, rallenta, soffre, ha la prova che la vita e la morte non sono universi contrastanti, ritrova la visione orientale abbandonata da ragazzina, quando visitava la tomba della nonna nei giorni di settembre che per la cerimonia buddhista segnano O-Higan. Sarebbe l’equivalente del nostro giorno dei morti solo che è l’opposto, un ricongiungimento: per qualche ora gli scomparsi trovano la maniera di ricollegarsi ai vivi, colorano i ricordi. Quanto di più vicino al Nirvana. Ma l’anima che trema non è per nulla quella di Shiota malata e se vi dicono che la mostra è un viaggio nel dolore entrateci ridendo. I viaggi, per natura, ognuno se li coniuga da sé quindi non lasciate che altri ci mettano un’etichetta al posto vostro.

Giorgio Perottino 

Certo, Shiota ci ha portato i suoi ricordi personali, ma sono uno dei tantissimi strati, sommersi da infinite altre suggestioni a cui si aggiungono le offerte del museo diretto da Davide Quadrio che con questa mostra è riuscito nell’intento formulato alla sua nomina, quattro anni fa: «Qui non parliamo più di oggetti, ma di esperienze. Abbiamo portato Shiota in diverse sezioni del museo, in quella dedicata al Giappone, i vestiti da sposa stretti in un nido di fili si specchiano nelle armature dei samurai restaurate per l’occasione». Uno dei luoghi più commoventi, quello che spiega meglio l’eterno contrasto tra fatti importanti e leggerezza in una dinamica di linguaggi contrapposti che garantisce un movimento perpetuo, che ci fa stare a galla in questa marea di sensazioni e probabilmente definisce la felicità che sta poi nel trovare il proprio filo. E accorgersi che è collegato a tanti altri in uno scambio, in un sostegno nel disegno di un nucleo, avvolto in una comunità, rivestito da una società. All’improvviso la struttura non fa più così spavento, è l’individuo a reggerla con ogni singolo pensiero che Shiota traduce in un fumetto mastodontico capace di occupare stanze intere. Di riempire il tempo.

Ha iniziato raccattando finestre dai muri pericolanti dell’ex Berlino Est. Le ha impilate, agganciate, ha unito il punto di osservazione di qua e di là del muro, ha usato un vetro come membrana e poi lo ha lavorato, ridotto a un filo, un gancio fragilissimo che si può sfaldare, ma lascia traccia di sé.