Il Live Aid del 13 luglio 1985 è lontano, sono passati quasi 34 anni dalla sua morte, eppure il leader dei Queen ancora esiste: i baffi, la canotta bianca, i jeans chiari e aderenti, le scarpe Adidas. Un fantasma fatto di voce vaga per Londra e a tanti viene voglia di seguirlo. Viaggio sulle orme di un mito

L’eco del Live Aid risuona ancora potente a distanza di quarant’anni: la voce di Freddie, la geometria muscolare della sua gestualità, la sua presenza sul palco del maestoso concerto di Wembley si staglia chiara nella memoria di ognuno. Quel 13 luglio del 1985 è lontano, sono passati quasi 34 anni dalla sua morte, eppure Freddie ancora esiste: i baffi, la canotta bianca, i jeans chiari e aderenti, le scarpe Adidas. Un fantasma fatto di voce vaga per Londra: viene voglia di seguirlo.

La casa

La prima tappa è la sua (ormai ex) fortezza inespugnabile: Garden Lodge, Logan Place 1. Non è una casa: è un santuario, spogliato delle reliquie dopo la vendita decisa da Mary Austin, l’unica donna amata da Freddie (da qualche mese, però, l’annuncio dell’ultima biografia – Love, Freddie – in uscita a settembre, scritta da Lesley-Ann Jones, che parla di una figlia segreta di Mercury). L’asta di Sotheby’s con gli oggetti, nel 2023: Kashmira, la sorella di Freddie, ne ha ricomprati alcuni (per un valore complessivo di circa tre milioni di sterline) perché non sopportava l’idea che le cose di suo fratello finissero nelle mani di sconosciuti (oltre 41.800 offerenti da tutto il mondo, per 1.406 lotti). La vendita della casa, poi, in mano a Knight Frank: un affare che supera i 30 milioni di sterline. I graffiti dei fan scomparsi dai mattoni, nessun biglietto, né mazzi di fiori: non c’è più traccia visibile di affetto a Garden Lodge, la villa in stile neo-georgiano, la casa di campagna di Freddie in città, nel mezzo di Kensington (era stata costruita nel 1908 dall’architetto Ernest Marshall per la coppia di artisti Cecil Rea e Constance Halford e fu proprietà, anche, di Peter Wilson, ex presidente di Sotheby’s).

L’unica trasparenza (illusoria) della casa è la porta di vetro sulla quale è inciso il nome di questo posto: chiunque cerchi Freddie a Londra ci si può specchiare dentro, opacizzato riflettersi, per poi non poter guardare un bel niente (a meno che, a suo rischio e pericolo, non si precipiti lì con un drone o altri aggeggi infernali: la villa è stata anche dimora di agenti segreti in passato, ma meglio non ficcare troppo il naso, oggi). Dietro quel vetro, un’altra porta di legno. Se si alza lo sguardo, l’impressione di un fortino, una zona militare, la minaccia di una recinzione stagna, il divieto di una siepe verde: bisognerebbe essere molto alti per scorgere qualcosa di questa bellissima casa, se ne intravede solo la sommità. Il resto appartiene alla memoria fotografica: le magnolie in fiore nel giardino con fontane con giochi d’acqua alla maniera giapponese; la porta; gli spazi interni; il famoso salotto dove dominava il giallo limone – colore amato, dalle pareti alle giacche – gli oggetti raffinati e costosissimi; l’eleganza lussuosa degli arredi; il pianoforte Yamaha; la suite con il grande spogliatoio in cui Freddie teneva i suoi istrionici abiti e costumi di scena.

Il suo popolo

Cosa resta di Freddie in questa casa? Chi lo cerca ancora: questo resta. Le persone che si incrociano per le strade di Kensington: non ci vuole molto a capire che la ragazza dai pantaloni verdi sta facendo un tragitto simile a quello di altri che si aggiravano con aria nostalgica qualche passo prima. La ragazza dai pantaloni verdi è arrivata qui, per cominciare il suo tour londinese che ha i baffi di Freddie, le frecce sulle giacche di pelle, le paillettes della fine degli anni Settanta.

Dopo aver lasciato Kensington si muove verso l’Imperial College: in un quarto d’ora raggiunge Prince Consort Road, cerca le blue plaques sul suo cammino, cerca i segni della prima esibizione della band negli anni Settanta («come ci chiamiamo?», si chiesero a un certo punto; «Queen», fu l’unica risposta possibile). Una band di studenti, come quelli che ancora oggi affollano queste strade.

La Royal Albert Hall

Facendo qualche altro passo si staglia imponente il profilo di un Pantheon laico della storia della musica: la Royal Albert Hall. Iconica, si direbbe oggi; luogo mitico, si sarebbe detto un tempo: luogo che ha visto suonare i più grandi e pulsa ancora di musica. I pantaloni verdi ci porterebbero poi verso Marble Arch, lì poco distante, si cercherebbero i memorabilia custoditi all’ex Hard Rock Cafè: oggi Cumberland, che fine hanno fatto quelle cose?

Sorseggiando un caffè – non dei migliori – si tornerebbe indietro, alle origini di tutto (o quasi), alla prima casa londinese di Freddie: la direzione è Feltham, dopo aver cambiato due linee della metro. Un’altra targa blu per la ragazza dai pantaloni verdi che fa lo stesso tour non dichiarato, e a suo modo religioso, degli altri volti alla ricerca di ciò che resta di Freddie: chissà cosa sta cantando nella sua testa, mentre cammina fino al 22 di Gladstone Avenue.

La targa a Feltham

Qui non è Kensington, qui non ci sono fortezze: c’è una casa, una casa inglese di un ragazzo prodigio di origini indiane – di etnia parsi, come i Magi – fuggito da Zanzibar (è lì che è nata, questa stella) insieme ai suoi per scappare dalla Rivoluzione: la targa blu è in alto, al secondo piano, tra due finestre bianche, non è dato sapere chi ci sia dietro le tende, c’è stato un tempo «Freddie Mercury, Fred Bulsara (dice la targa; non dice Farrokh come realmente si chiamava), singer and songwriter», lover of life, singer of songs diceva lui che s’era cambiato nome, cambiava identità – the great pretender – cantava al mondo mille modi di essere e la sacrosanta sfrontata e vitale energia di essere sé stessi a qualunque costo – la generazione dei millennial (quella della ragazza dai pantaloni verdi, pronta a riprendere la metro) lo ha amato sin dall’infanzia come una scia di cometa, indagata con l’aura di sacralità delle cose perdute a partire dalle prime note incontrate distrattamente in qualche pubblicità che amava e ha amato saccheggiarne il prolifico repertorio.

Farrokh è vissuto qui, con la sua famiglia: con il padre col quale si scontrava, con gli occhi teneri di mamma Jer. In queste strade, di mattoncini tutti uguali e finestre affacciate sull’ordinario inglese, Freddie ha capito chi era e chi voleva essere. Per questo la ragazza dai pantaloni verdi lo segue e cerca, insieme a due signori tedeschi che a Garden Lodge non riuscivano a fare foto perché non si vedeva nulla (come si fotografa un privato inespugnabile?).

Gli Studios

Ci sono molti Freddie e ci sono molte Londra: quella di Feltham è lontana da quella di Soho. Al 17 di St. Anne’s Court, i Trident Studios: le prime registrazioni, non lontane da Marble Arch e quei monumenti della storia della band come Seven Seas of Rhye e Killer Queen. A una ventina di minuti, forse venticinque, i pellegrini di Mr Bad Guy si ritrovano all’Hammersmith Odeon: è il posto del famoso concerto di Natale del 1975, lo stesso anno di Bohemian Rhapsody, un capolavoro di cinquant’anni che non se ne è mai andato (come Freddie) dalle strade di Londra e da quelle del mondo.

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