di
Elvira Serra

Il giornalista: «Lo scoop più bello fu Tortora. Giocai con Rivera, con Brera partì male ma poi mi regalò i suoi inediti»

Vittorio Feltri, a chi deve il suo amore per i libri?
«A mio padre Angelo. Aveva tantissimi libri, leggeva moltissimo. Lo vedevo sempre con un libro in mano. Da piccolo, per spirito di imitazione, lo facevo anche io, senza capire nulla ovviamente».

E chi le ha insegnato a leggere?
«Mia zia Tina, la sorella di mia madre, che viveva con noi. Poiché non volevo assolutamente andare all’asilo, riuscii a spuntarla e la zia Tina si prese la briga di occuparsi di me. Mi ha insegnato lei a leggere e a scrivere».



















































Quale romanzo l’ha emozionata di più?
«Forse La coscienza di Zeno, ma ce ne sono tanti altri. Però nel libro di Italo Svevo ci sono elencati tutti i miei difetti, a partire dal fumo».

Compresa la sua ipocondria…
«… Che ho esteso a mia moglie Enoe. Ho paura che possa ammalarsi o stare male. Del resto ho paura anche per me, ma finora me la sono cavata».

Chiacchierare con Vittorio Feltri non è mai banale. Al netto della sua allergia al politicamente corretto, che regolarmente spacca in tifoserie avversarie il pubblico che lo segue in tv e sul Giornale, di cui è direttore editoriale, nella sua vita ha accumulato una tale collezione di aneddoti che merita sempre di essere ascoltato. La sua migliore amica Melania Rizzoli dice che è forse l’unico giornalista capace di coinvolgere tre generazioni di lettori. Su questo, lui un po’ si inorgoglisce e un po’ borbotta: «Per strada mi fermano, mi chiedono i selfie. Ma così mi fanno stancare: mica sono un calciatore!». 

Ci incontriamo nella sua bella casa milanese in zona Loreto, per parlare di Chi non legge è perduto (Mondadori), il suo ultimo saggio già in classifica su quanto siano attuali i grandi classici della letteratura. Ma anche una sorta di autobiografia letteraria, poiché mai come in questo libro dissemina le pagine di ricordi. Prima di accomodarci nel salotto, suggerisce di affacciarmi alla stanza comunicante con la sua camera da letto, praticamente una cabina armadio degna del re Carlo d’Inghilterra, con decine di paia di scarpe, giacche e camicie allineate in perfetto ordine.

Dica la verità: quando si è fatto fare il primo abito su misura?
«A 17-18 anni. Io lavoravo già e guadagnavo benino. Ho fatto tanti lavoretti prima di diventare giornalista: sono stato commesso, pianista nelle balere, garzone del latte. Ho pulito le scale nei condomini e ho fatto anche il vetrinista, un mestiere utilissimo a disegnare le prime pagine dei giornali che ho diretto».

Chi è il primo giornalista che ha ammirato?
«Indro Montanelli, già quando ero un bambino e sfogliavo La Domenica del Corriere. Mi sembrava una persona importante perché aveva una stanza tutta per sé, quella delle lettere».

Adesso ce l’ha pure lei, sul «Giornale». Si è emozionato quando gliel’hanno assegnata?
«Sì, molto. Ma non gliel’ho detto».

Montanelli, poi, lo sostituì proprio lei alla guida del «Giornale». Lui se la prese?
«No, anzi. Prima che succedesse, voleva che andassi a fargli da vicedirettore. Ma io ero già direttore dell’Indipendente e non avevo nessuna voglia di andare lì a fare il numero 2. Poi a un certo punto ha litigato con Berlusconi, al Giornale non sapevano chi prendere al posto suo e chiamarono me».

Accettò subito?
«No, dopo lunghe trattative. In particolare, ricordo un incontro al quale partecipò tutto lo staff contabile: mi offrirono uno stipendio ridicolo, di pochissimo superiore a quello che già prendevo. Contestai l’offerta e loro non vollero sentir ragioni. Allora indossai l’impermeabile e mi diressi verso l’ascensore. E proprio quando la mia mano era ferma sul pulsante venni bloccato. Finì che accettarono la mia richiesta: mezzo miliardo di vecchie lire».

Berlusconi, dopo, fu ancora più generoso.
«Dopo poco più di un anno di direzione avevo portato le copie da 110 mila a 250 mila. E lui, per premiarmi, mi fece dare il 7 per cento dell’azienda, compreso il palazzo di via Negri nel quale stavamo. Quella è stata la mia fortuna».

Le chiese mai di scrivere o non scrivere qualcosa?
«Mai. Solo una volta mi ha chiesto se volevo andare nella sua villa in Sardegna per trascorrere le vacanze, ma declinai l’invito dicendogli che detestavo il mare».

Ha diretto «L’Europeo», «L’Indipendente», «Il Giornale» e «Libero». Dove ha i ricordi più belli?
«Al Corriere della Sera, perché mi ha consentito di fare quello che volevo, e poi mi ha affidato incarichi importanti che mi hanno permesso di mettermi in luce. Per il Corriere sono stato in mezzo mondo, dalla Corea del Sud alla Cina precedente a piazza Tienanmen, dall’America al Messico. Per non parlare dell’Europa. Però il posto più bello dove sono stato è l’Italia: ero sempre felice di ritornare».

Lo scoop di cui è più orgoglioso?
«Beh, senza dubbio la vicenda che riguarda Enzo Tortora. Mi ero convinto della sua innocenza leggendo le carte del processo: mi accorsi che chi lo accusava aveva mentito sulla data di consegna della droga; lo avevo scoperto con l’aiuto di un archivista del Corriere. E poi c’erano altre incongruenze che a una lettura attenta sarebbero saltate agli occhi di chiunque».

Quando, nel nuovo libro, cita «Il piacere» di D’Annunzio, parla del piacere di svolgere il suo mestiere, confrontandosi con i grandi. Se le dico Indro Montanelli?
«Mi voleva bene. Pranzavamo in una trattoria toscana vicino alla redazione del Giornale e mi colpiva che tenesse per terra il fiasco di vino, che sollevava ogni volta per versarmi da bere. Era un gesto contadino, lo faceva anche mio nonno».

Enzo Biagi?
«Collaboravo con lui, gli scrivevo i testi per la televisione. Era di una scaltrezza non immaginabile, riusciva a convincere chiunque a farsi intervistare da lui. Anche quando faceva dei servizi fuori, era sempre capace di cogliere gli aspetti che poi avrebbero interessato il pubblico».

Oriana Fallaci?
«La più grande di tutti. Ci conoscemmo al Corriere. Lei veniva in redazione, faceva stampare il suo elaborato, lo correggeva fino all’ultimo, era maniacale. Una sera rimase senza sigarette e io le diedi un mio pacchetto intonso, che lei finì nel giro di un’ora. Allora tornò da me disperata: a me erano rimaste 3-4 sigarette, gliene diedi due e la feci felice. Tempo dopo, quando fui nominato direttore dell’Europeo, volle conoscermi e appena mi vide mi riconobbe: “O te tu sei quello delle sigarette!”. Così siamo diventati amici. Scriveva cose bellissime che mi aiutarono molto a rilanciare il settimanale».

All’«Europeo» l’avevano accolta con due mesi di sciopero.
«Perché non ero comunista come loro. Li convinsi radunandoli e dicendo, con calma: “Io in questi due mesi ho continuato a prendere il mio stipendio. Allora chi è più cretino tra me e voi?”. Insieme abbiamo fatto un buon giornale».

Gianni Brera?
«Bravissimo. L’ho molto ammirato, anche se tra noi era partita male».

Racconti.
«Mentre ero in Corea del Sud per le Olimpiadi, lui sostenne la candidatura di Milano per ospitare i Giochi olimpici del 2000. Una cosa davvero impossibile, per come era messa Milano a quei tempi. Così, replicando al suo articolo, scrissi che quella volta aveva proprio toccato il fondo della bottiglia».

Era senza filtri già da allora…
«Poi a Milano me lo trovai seduto in un ristorante di corso Sempione e quando mi sedetti un cameriere mi consegnò una bottiglia di Grignolino con un biglietto, in cui Brera mi augurava di arrivare anche io al fondo della bottiglia. Da allora diventammo amici e mi regalò perfino sette racconti inediti che pubblicai sull’Indipendente per sette settimane di fila, guadagnando migliaia di lettori nuovi che poi rimasero».

Scrive che la «Casa del nespolo» dei Malavoglia la fa pensare alla sua vecchia casa di Ponteranica, nel Bergamasco, che ha venduto qualche anno fa.
«Era su una collina in mezzo al verde, dentro un grande parco. I miei gatti erano liberi. Arrivavano anche i cinghiali. Io lavoravo a Milano durante la settimana e rientravo lì il venerdì sera. Ho provato dolore a venderla, ma io e la Bonfanti (la moglie Enoe, ndr) stiamo diventando vecchi e ora la nostra vita è qui».

«Il deserto dei tartari» di Dino Buzzati le ha ricordato il servizio militare. È vero che ha giocato a calcio con Gianni Rivera?
«Sì, a Orvieto. Rivera era il mio compagno di branda, le nostre due confinavano. Diventammo abbastanza amici. Poi una sera rimasero senza un giocatore e chiesero a me di sostituirlo, e da allora ho continuato a giocare con loro. C’era anche Vittorio Carioli, una persona riservata, gentile, timida, morta troppo presto».

Un libro la salvò da una querela.
«Ero stato querelato per aver usato l’espressione pirla. Mi presentai in Tribunale con il Diario del ‘71 e del ‘72 di Eugenio Montale e declamai la poesia che si intitolava pirla. Fui assolto».

«Leggere è l’ultimo espediente che ci resta per non morire». Parole sue. Ma l’Intelligenza artificiale ucciderà il giornalismo?
«Non credo che lo farà morire, ma forse lo renderà più stupido. La redazione è un’orchestra che suona guardando il direttore. Molti componenti ormai non ci sono più, vedi gli inviati, perché alle aziende costano troppo e oggi vendono troppo poco per poterseli permettere».

Le dispiace che nessuno dei suoi nipoti voglia fare il giornalista?
«Mio nipote Giulio fa l’attore, ha recitato in un film presentato a Venezia e ho letto recensioni molto belle. Vuol dire che ha talento. E poi basta suo padre Mattia, che è un buonissimo giornalista».

25 ottobre 2025 ( modifica il 25 ottobre 2025 | 11:42)