Diventare famosi per un letto sfatto che stropiccia una vita disordinata e per una tenda con il ricamo delle persone con cui hai fatto sesso determina una carriera anche se poi ci si muove lontano dalle lenzuola, almeno da quelle.

Succede a Tracey Emin che oggi, dopo una esistenza intensa, una malattia debilitante, una stanchezza infinita e una creatività inesauribile, a 62 anni non ha più legami con la ribellione e accende una luce a Torino: «Sex and Solitude».

Emin è uscita dalla corrente degli Young British Artists con Damien Hirst e Sarah Lucas nella seconda metà dei Novanta, diventata l’artista più schietta e cruda in circolazione.

Zero tabù, non il minimo compromesso: sesso, solitudine, morte, amore, vecchiaia, desiderio irrisolto di maternità, mestruazioni, egoismi, dolori, tradimenti, felicità travolgenti, assenze insopportabili, ogni tema è finito nei suoi lavori diventati un termometro della contemporaneità.

Alla Tate Modern di Londra, che sta per dedicarle una enorme retrospettiva, la prossima primavera, ha diviso la stanza con Francis Bacon. Il letto del 1998 che l’ha fatta conoscere al mondo torna al centro di una esposizione, ma per raccontare chi è adesso ha scelto di illuminare una necessità collettiva, anzi due: «Sex and Solitude».

Il neon è una delle 32 Luci d’artista che da oggi trasformano la notte a Torino, una delle quattro novità presentate in questa edizione. La scritta ha già dato il nome a una mostra a Palazzo Strozzi, a Firenze, però qui fa pulsare un’anima irrequieta che trova una dimensiona nuova. E non poteva essere altrove, dove le luminarie nate come alternativa brillante agli addobbi natalizi sono diventate la proiezione di un desiderio, di un’aspirazione.

Quale è il suo legame con Torino? Incroci, esperienze, conoscenze?
«Sono elettrizzata all’idea che il mio lavoro stia a Torino dove sarà vicinissimo alla sacra sindone. Per me la sindone è stata sempre una grande ispirazione, direi più una motivazione: dà una ragione all’arte».

In che senso?
«La sindone non avrebbe il significato che senza le persone che ci vedono altro e le danno un’importanza con il loro omaggio, il loro pellegrinaggio. La gente si mette in fila per vederla quando è possibile: la bellezza sta nello sguardo, non nell’oggetto. Lo trovo commovente E che tutto il principio che regge la mia idea di arte sia tanto vicino a me, in una prossimità a cui non ho nemmeno mai pensato, mi riempie di emozione».

Il neon è nella parte bassa dei Giardini Reali. A poco più di un chilometro di distanza dalla Sindone, meno in linea d’aria. Ha avuto parte nella scelta del luogo di «Sex and solitude»?
«Sì, con il team di Luci d’Artista ovviamente».

Una dame, il titolo cavvaleresco ricevuto in Inghilterra, che espone ai Giardini Reali, di fronte al monumento dedicato ai carabinieri, un virtuale costante controllo. Che ne è stato di Emin la ribelle incontrollabile amante degli eccessi?
«Non sono più una ribelle, non credo di esserlo mai stata davvero. Mi vedo in un altro modo. Penso diversamente. Lavoro diversamente, sono diversa. Ho differenti valori. Non c’è altro da spiegare, è così. Sono così».

«Sex and solitude» è un urlo? Un avvertimento? Una poesia? Un sogno? È una visione romantica o punk?
«A me sembra romantica. Suona anche romantica. Vivere senza sesso è esattamente come vivere senza cibo. Dubito che gli angeli mangino o facciano sesso. È la nostra umanità».

La sua arte non è stata spesso usata per opere pubbliche.
«Negli ultimi 20 anni in realtà è capitato, da “Baby Things”, con dei piccoli vestiti per neonati allestiti tra altri oggetti a Folkestone, sulla costa inglese a una scultura di nove metri in bronzo a Oslo, davanti al Munch Museum. Ma questa è la primissima volta di una mia opera pubblica in Italia. Sono felice che sia a Torino»

Il neon potrebbe stare appeso sopra «Everyone I Have Ever Slept With 1963-1995», titolo per la tenda o sulla parete di «My Bed» il famoso letto?
«No, assolutamente no. No… con «Everyone I ever slept with» sarebbe un connubio impossibile. Quel lavoro parla di profonda intimità. E mostrare questa luce con «My Bed» sarebbe decisamente troppo illustrativo».

Il Neon è uno dei materiali che preferisce. Come è cambiata la sua relazione con questo stile nel corso del tempo. Rappresenta ancora l’unione tra fragilità e forza?
«Ho una passione per i neon, li uso da 30 anni, li adoro, mi incantano. Amo l’energia che sanno trasmettere, la magia e l’alchimia che si crea quando entriamo in contatto con una luce artificiale che accende delle parole. È un rapporto molto più complesso di quanto si possa immaginare, è un’esperienza».

Che impatto hanno avuto cinque anni di Brexit (quasi dieci dal referendum) sulla cultura britannica?
«Odio la Brexit, la detesto con tutto il mio cuore e la mia anima. Non so come dirlo in modo più brutale. Brexit ha provocato danni irreversibili, soprattutto alle relazioni tra la Gran Bretagna e le altre nazioni europee».

Ha avuto dei riflessi sulla sua arte?
«Sono cresciuta a Margate, più vicino alla Francia che a Londra… io ho un mio percorso ormai. Per I giovani artisti che tentano di emergere ora, esporre all’estero è praticamente impossibile. Sono convinta che in nessun piano sulla Brexit sia mai stata contemplata la cultura. Non una singola persona che ha promosso e pianificato questo stato delle cose l’ha ritenuta importante».

Si è sempre mostrata senza filtri nel suo lavoro. Ha nascosto qualcosa, c’è una parte vulnerabile che non reggerebbe di essere esibita?
«Certo, non ho vomitato fuori ogni mio pensiero a caso. Peso la mia arte, è calcolata, calibrata, meditata: è ovvio che parta da un fattore emozionale, quello esce, viene assorbito dal lavoro, coinvolge il pubblico, parla di me, urla di me, ma ci costruisco molto sopra. Non spargo ogni emozione in giro».