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Per carità, qualcuno legittimamente potrà pensare che La chitarra nella roccia – film-concerto con la regia del bravo Tommaso Ottomano, che documenta il live di Lucio Corsi dello scorso 30 luglio nella suggestiva Abbazia di San Galgano, nei The Space Cinema dal 3 al 5 novembre – sia l’ennesima grattata, un modo come un altro per far soldi. Del resto il 2025 è stato l’anno del cantautore toscano, è ovvio, se non proprio per numeri (lì il vero campione è Olly, per esempio) almeno per la portata mediatica e trasversale del fenomeno, oltre che per il senso di spiazzamento e per tutto il dibattito suscitato. Non è poco e, insomma, un film è po’ una presa assicurata.
Non un film-concerto come tanti
Eppure, questi novanta minuti catturati su pellicola 16mm – e che dal 14 novembre diventeranno un disco dal vivo – meritano comunque di essere visti, non solo perché sullo sfondo c’è una bellissima chiesa in stato di rovina, a pochi chilometri dalla stessa Maremma in cui Corsi è nato, con il sole che via via tramonta tra i ruderi perfettamente conservati e, intorno, la leggenda di San Galgano, che pare che lì abbia infitto nel terreno la sua spada, in segno di rinuncia alla mondanità (da cui, la spada nella roccia). Certo, c’è tutto questo, così come ci sono belle riprese dall’alto, i tanti giochi di prospettiva, l’atmosfera più intima rispetto ai tanti bagni di folla che l’artista si è concesso durante la scorsa estate, sulle ali dell’entusiasmo, folle che peraltro tornerà a bazzicare a dicembre 2026 con tre date nei palasport (tradotto, ci sarà probabilmente un album d’inediti in mezzo). Ecco, semmai meritano di essere visti perché al loro interno accade qualcosa: un concerto, un concerto vero.
Chiariamo, la verità è che gran parte dei documentari musicali che si girano oggi in Italia non sono altro che prodotti promozionali che raccontano il dietro le quinte dell’artista X, spesso in assenza di una storia forte da ripercorrere, giusto per fare volume. Corsi, s’intende, non ha un vissuto granché cinematografico alle spalle, non ha particolari traumi, solo una gavetta assai lunga ma pur sempre serena – sarebbe interessante, semmai, capire com’è cambiata la sua vita da febbraio a oggi, ma per questo, se vorrà, ci sarà tempo. La sua particolarità muore e rinasce invece ogni sera, su un palco: allora catturiamolo lì. Mentre il modello classico dei concerti – grandi o piccoli che siano, con un enorme squilibrio verso i grandi – sta diventando quello di spettacoli televisivi fin troppo rigidi e programmati, dove è impossibile anche solo improvvisare, La chitarra nella roccia fa il percorso contromano e porta un live vero sullo schermo. E per live vero s’intende, in questo caso, uno senza fronzoli che presto finiscono per servire solo da schermo all’essenza, ma anzi uno suonato dal vivo e in cui c’è spazio per l’errore, appunto l’improvvisazione, la spontaneità. Uno che, ecco, se lo si vede stasera è realizzato in un modo, se lo si vede domani è diverso, e così via. Irripetibile, non perché stupendo, ma perché dal vivo.
I motivi del successo
Qui l’occasione è speciale, certo, vista la location, ma la vera merce rara è vedere Corsi dimenarsi sul palco, spogliarsi e cambiarsi tra un pezzo e un altro e vedere il trucco che ha in faccia che un po’ alla volta gli cola, come fosse lui stesso il primo a essere stravolto da un’esperienza tanto forte. Naturalezza. Concerti lunghi, generosi. È strano rispetto agli standard, ma a volte la regia sembra perfino “di troppo”, quasi un’imbucata a una festa che invece si sta consumando lì per lì, con uno show tutt’altro che a favor di telecamere. Hai detto niente. L’immaginazione va ai grandi concerti degli anni Settanta – su tutti, il film di Banana Republic di Francesco De Gregori e Lucio Dalla – in cui un’esibizione era un modo per sentirsi liberi, sul palco si vedevano sorrisi, ammiccamenti, perfino sigarette. Gente con indosso solo dei jeans e una magliettaccia – nel caso loro, ma si vedeva benissimo anche nel live a Pompei dei Pink Floyd – o nel caso di Corsi, che s’ispira al glam rock, dei costumi comunque scalcagnati. E che però, suonava musica pazzesca, dava l’impressione di essere lì e solo lì. È un momento di nostalgia questo? Sì e no, e questo è il grande paradosso anche del successo di Corsi: la sua rivoluzione pesca per estetica e stile dal passato, a molti scatena una certa malinconia verso un’epoca che magari non si è neanche vissuto, ma la sfida – per lui, per noi – è di continuare con quell’approccio selvaggio nella musica di oggi.
Per ora, si vede, Corsi non è solo retromania, urgenza di rifugiarsi in un mondo lontano per rifiuto del nostro. Semmai – Volevo essere un duro lo dimostra bene – è necessità di comprendere il presente consapevoli, però, che gli strumenti di oggi non bastano più. E dunque sì, La chitarra nella roccia ci ricorda che c’è un altro modo di stare sul palco e, quindi, di fare documentari musicali – e dischi dal vivo, dicevamo, un’altra di quelle usanze cadute in disgrazia, se non altro perché non c’è niente più da salvare, i concerti sono tutti uguali, tutti speciali e già pensati per i social, per cui già possono bastare le storie Instagram dei fan. Ci ricorda, soprattutto, che Corsi è uno dei pochi artisti che vale la pena vedere in concerto, perché il suo è sempre un concerto irripetibile. Cerchiamo, ecco, di non farlo diventare l’unico.