Se pensate a Sanremo vi viene in mente il Festival, no? Ecco, il Premio Tenco, pur svolgendosi all’Ariston, è tutto il contrario. Da una parte troviamo c’è la massima espressione del mainstream in tutte le sue forme – musicali, comunicative, organizzative –, dall’altra l’intera rassegna della canzone d’autore è incentrata sulla qualità, la profondità, il confronto e immersa in un caos creativo che, persino nei momenti di massimo cazzeggio (al Tenco si cazzeggia allegramente), alla fine trova una sintesi per dare visibilità e supporto al meglio di quello che è stato pubblicato nell’ultimo anno di discografia (anche alternativa o indipendente), ritrovando magicamente sul palco un ordine che, viste le premesse, appariva insperato.
Ci ho trascorso tre giorni, quelli delle premiazioni, con la possibilità di intrufolarmi nel dietro le quinte, che è come fare un tuffo nella storia della canzone d’autore del nostro Paese dell’ultimo mezzo secolo. E se c’è una cosa che ho capito è questa: il Premio Tenco siamo noi italiani, nel bene (soprattutto) e nel male (nostro malgrado). Se infatti il Festival (quello di febbraio), si trasforma in ogni epoca in format il più performanti possibile per attirare il maggior numero di spettatori televisivi (ora anche social) e sponsor, il Club Tenco mantiene ostinatamente ben salde le proprie radici culturali, nonostante i fisiologici cambiamenti, in modo da poter contare su una sorta di scudo romantico alle lusinghe deformanti del music business.
Il fil rouge di quest’anno era declinato nel titolo Con la memoria. A partire dalle ricorrenze interne, perché nel 2025 cadono due date importanti: 50 anni dalla sua nascita e 30 anni senza Amilcare Rambaldi, storico fondatore (nel ’75). Concluse le dovute premesse, varcata la soglia della sede del Club Tenco nella ex stazione di via Matteotti, si viene subito accolti dal “bravo presentatore” Antonio Silva, che per aprire una conferenza stampa con gli artisti arringa i presenti in questo modo: «Mi fate un cazzo di applauso? Ieri sera hanno provato a fermarmi, non so quanti vini rosé ho bevuto, ma non bastano: dovranno spararmi». Questo preside in pensione 79enne dal ’76 non ha mai mancato la conduzione di un’edizione e dalla mattina alla sera (cioè il “dopo Tenco”, dove si mangia, si beve e si suona fin oltre alle 2 di notte) è l’instancabile animatore (anche se per l’ultima volta, come vedremo, infatti è stato affiancato dai co-conduttori Andrea Scanzi, Lorenzo Luporini e Silvia Boschero). Tra una battuta e l’altra («chi osa scrivere che qui non ci sono i giovani gli sputo in faccia», ha arringato bonariamente i giornalisti), emerge anche il piglio del professore: Lamante, per esempio, lo ha sfidato sul latino e ha avuto la peggio.

Emma Nolde al Tenco 2025. Foto: Fulvio Bruno
Protagonista della prima serata di giovedì 23 ottobre Lucio Corsi, vincitore del Migliore album in assoluto e della Miglior canzone con Volevo essere un duro, che è apparso molto più a suo agio in questo ambiente che al Festival. Tanto che si è spinto a dichiarare: «Il mio sogno è che il Premio Tenco abbia lo stesso livello di attenzione e di visibilità del Festival». Al suo fianco Emma Nolde, che ha aperto la serata con Lontano lontano, in un’interpretazione solida e struggente, e pure lei sembrava sentirsi a casa: «È dove volevo essere. Questo premio rappresenta quello che piace a me. Ogni anno premiano gli artisti che avrei premiato io, è bello sentirsi capiti». La guest star internazionale era invece il compositore Goran Bregović (Premio alla carriera), che ha ringraziato con fare istituzionale: «Sapere che un Paese come l’Italia, di Monteverdi, di Verdi, di Sanremo, abbia curiosità per un compositore come me, che viene da una cultura musicale piccolissima se paragonata alla vostra, mi emoziona profondamente». Ma poi ha spiazzato, come nel suo stile. Su un brano dal sound danzereccio, ha scosso la platea: «Cosa ridete, questa canzone parla di stupro». Così come nel backstage, dove a un certo punto è arrivato un assistente a porgergli una busta della spesa, che però non conteneva prodotti tipici italiani ma una bottiglia di Jack Daniel’s, e si è rivolto agli organizzatori con l’ingenuità di un bambino consapevole di compiere una marachella: «Ho portato un po’ di allegria…». A 75 anni, c’è da riconoscere che la tempra è di quelle da invidiare. Gli altri premiati: Ginevra “The Voice” Di Marco (Targa Miglior album di interprete), Lamante (che ha spoilerato uno splendido nuovo brano, La magia più forte della morte), oltre alle esibizioni di Alessio Lega e Stefano Tessadri.

Goran Bregović al Tenco 2025. Foto: Fulvio Bruno
All’Ariston, tra premiazioni ed esibizioni, si chiude sempre, più o meno, a mezzanotte. Ma la parte meno raccontata, più imprevedibile e godereccia è il famosissimo “dopo Tenco”. A fianco del teatro, si attraversano pochi metri di una galleria e ci ritroviamo stipati in fila tra artisti, addetti ai lavori, giornalisti e imbucati, per accedere “all’isola che non c’è” dove tutto è possibile (ma non tutto può essere raccontato). Centinaia di persone si incastrano a fatica negli unici due ascensori per salire all’ultimo piano, e si ritrovano in un grande salone dove decine di tavoli sono già apparecchiati.
Niente posti riservati, ci si mischia e può accadere di cenare con uno degli artisti, i presentatori, produttori e manager, musicisti, amici degli amici, parenti di e persino chi è entrato solo perché travolto dalla folla. L’unico problema? L’enorme fila fantozziana che si forma per gettarsi a capofitto sull’abbondantissimo buffet. E se arrivate tardi? Nessun problema. I più esperti della rassegna hanno escogitato due diversivi. Il primo consiste nell’intortare qualcuno che conosci (anche vagamente) in una posizione avanzata e poi, con nonchalance, inserirsi in fila. La seconda è più conturbante: partire dalla fine e risalire controcorrente, cominciando dagli stuzzichini per arrivare, fingendo di aver dimenticato qualcosa e dopo un ardito slalom tra la gente che si abbuffa, finalmente ad assaporare pasta e riso. In ogni tavolo è poi immancabile il vino: bianco, rosso o rosé, la scelta è ampia e di qualità, e durante questi finaloni di serata ne scorre a fiumi. A lato dei tavoli c’è il palco, corredato con tutti gli strumenti utili a una jam session che, infatti, puntualmente è il momento più atteso e coinvolgente dell’after party.
Fra quelli più apprezzati quello con il cantautore Olden, che si è distinto tanto da essere chiamato a suonare anche il giorno dopo a furor di popolo. Ma è rimasto un mistero: «Chi era il ragazzo nero che cantava così bene?», la domanda che circolava tra i tavoli. Il vino della sera precedente e le poche ore di sonno hanno però offuscato i ricordi. Così c’è chi si è azzardato a sostenere che «c’è un po’ di vaghezza nei dettagli per riconoscerlo», l’assist perfetto lanciato a Johnson Righeira per una battuta fulminante: «E se si chiamasse proprio Vaghezza?».
Altra zona cult del “dopo Tenco” è la balconata affollata di fumatori, tradizionali o di sigarette elettroniche. Si fuma, ma con il passare delle ore si trasforma in un privè di piccoli gruppi che criticano, sparlano e prendono per il culo con goliardia quelli rimasti in sala. Nel frattempo, cullati dalla vista di Sanremo dall’alto, tra il mare scuro e il cielo punteggiato di stelle e gabbiani, i musicisti si scatenano e le jam più coinvolgenti vengono applaudite dalla sala con il roteare dei tovaglioli in aria (l’ultima sera hanno cantato anche i camerieri).

La Niña al Tenco 2025. Foto: Fulvio Bruno
Venerdì 24 ottobre la rassegna è proseguita e ne ho approfittato, tra un evento e un’esibizione, per scoprire che cosa si nasconde dietro la leggendaria “Infermeria” del Tenco. Mi ha raccontato Daniele Lucca, veterano alla 36esima edizione, che un tempo di questo “ambulatorio” era primario Francesco Guccini con assistente Carlin Petrini. Le cure? Tutte a base, ça va sans dire, di vino (rosso o bianco, il rosé non era contemplato). Per ragioni di sicurezza, ma c’è chi mormora perché facessero un gran casino di fianco all’ingresso del palco, la sede è stata ora spostata qualche metro più in fondo.
Qui sono custodite le foto di tempi mitologici, quando i più grandi cantautori e musicisti italiani e internazionali, fino a pochi secondi dall’ingresso in scena, oziavano e si facevano scherzi, alcuni addirittura crudeli (ancora si narra di una “perquisizione corporale” a Vinicio Capossela bloccata da Guccini che, entrando dalla porta, urla: «Un po’ di silenzio che qui stiamo operando»). Adesso il primario è Luciano Barbieri, reduce di mille battaglie (alcoliche), che continua a distribuire calici (di plastica) indossando un cappello di paglia, testimone dello spirito agreste delle origini: «Ieri hanno bevuto solo 16 bottiglie, anni fa superavamo le 40». Le testimonianze sono alle pareti, con tanto di classifiche di chi ha avuto più bisogno di “cure”. Intanto, sul palco dell’Ariston, Anna Castiglia (Targa Tenco Migliore album opera prima con Mi piace) ha fatto capire che è arrivata per rimanere, Moni Ovadia ha sferzato il pubblico con un j’accuse di brani pro Palestina, La Niña (Miglior album in dialetto) ha fatto bella mostra dell’ossimoro che la rende unica («un futuro antico», copyright del giornalista Federico Vacalebre), passando al cantautorato di Simone Cristicchi, alla celebrazione del rock del duo Omar Pedrini e Massimo Priviero, fino all’omaggio a Ricky Gianco (Premio alla carriera) che ha accarezzato il pubblico con l’indimenticabile Ora sei rimasta sola.
Il finale? Il Premio Tenco ai Baustelle, per i 25 anni di carriera e l’essere diventati un punto di riferimento della musica d’autore, che ho scoperto di dovergli consegnare totalmente a sorpresa. Sì, perché essendo alla prima partecipazione, gli organizzatori hanno pensato bene di riservarmi questo “battesimo del fuoco”. Da segnalare, il doppio disco Pagani Per Pagani, di Caroline Pagani (Targa Tenco Migliore album a progetto) e dedicato al fratello Herbert, musicista poliedrico e attivista in anticipo sui tempi: «Viene ricordato come cantautore», mi ha spiegato, «ma si è sempre battuto per la pace in Medio Oriente e il rispetto dell’ambiente. In Megalopolis immaginava la fine del mondo a causa dell’inquinamento, era profetico».

I Baustelle al Tenco 2025. Foto: Fulvio Bruno
L’ultimo giorno, sabato 25 ottobre, prima di reimmergermi nella rassegna, al mattino compio un breve ma intenso pellegrinaggio all’ex Hotel Savoy, dove, tra il 26 e il 27 gennaio del 1967, nella camera d’albergo 219, morì Luigi Tenco. In via Nuvoloni 44, a dieci minuti a piedi dal centro (in salita), dell’albergo è rimasta solamente la facciata. Il resto, come mi confermerà uno dei lavoratori impegnati nel restauro, diventeranno alloggi di lusso. «Le Belle arti hanno posto il vincolo storico su alcune parti, in particolare la facciata, ma all’interno niente è rimasto come prima», spiegano. Forse alle Belle arti non sono appassionati di musica. Resta, con un po’ di fantasia, immaginare il cantautore affacciato per l’ultima volta alla finestra, che è la seconda da destra del penultimo piano, osservare l’orizzonte che si perde tra i flutti delle onde.
Dopo questa gita, ritorno all’Ariston e il programma, come al solito, è ricco. I palestinesi e tutti i popoli oppressi sono stati celebrati dal Premio Yorum alla memoria di Refaat Alareer (ritirato da Nabil Bey Salameh, alla presenza di Federico Lera), dopo una toccante esibizione del Grup Yorum (censurati, incarcerati, ammazzati solo perché cantano di libertà in una Turchia che di libertà non vuol sentir parlare). A seguire, il co-conduttore Andrea Scanzi ha strappato applausi ribadendo che «l’antifascismo è un valore cardine di questo Paese» e ricordando a chi lo percepisce come divisivo che «è un problema suo». Paolo Angeli ha fatto volare il teatro oltre i confini con la sua chitarra sarda (preparata anche per Pat Metheny). Mimmo Locasciulli (Premio Siae) ha reso plastico come, senza cercare il successo, «con la passione e la coerenza» il successo lo abbia comunque accompagnato per 50 anni. Tito Schipa Jr (Premio Tenco Operatore Culturale) ha reinterpretato Masters of War di Bob Dylan al piano e in italiano e si è tolto qualche sassolino, come aveva fatto in conferenza stampa: «Sono una delle persone più censurate d’Italia, grazie a voi che mi seguite nonostante le tempeste».
Ancora, le sempre intelligenti trovate di David Riondino con Sara Jane Ceccarelli, la stilosa Scraps Orchestra, una Tosca (Premio Tenco) che ha elettrizzato il pubblico con evoluzioni sonore e canore provenienti da tutto il mondo, e Daniele Silvestri (Premio Tenco) che ha ripercorso la sua carriera attraverso alcuni classici ed altre chicche, per chiudere un cerchio iniziato proprio qui con la targa del 1994. Prima dei saluti, c’è stato spazio anche per una (brutta) sorpresa: Antonio Silva ha letto la poesia Itaca di Kavafis, sul senso del viaggio, e con la voce rotta dal pianto ha fatto intendere che, dopo 50 anni, il suo viaggio come “bravo presentatore” del Premio Tenco si è concluso. A margine, sulle scale interne dell’Ariston, l’ho raggiunto e ha confermato: «È vero, per me è stata l’ultima volta». Intorno a lui, però, c’è già chi si è detto pronto a portarlo sul palco anche a forza, per cui staremo a vedere.
Nel frattempo si pensa già oltre. Il Direttore artistico Sergio Secondiano Sacchi mantiene la barra dritta: «In un periodo storico in cui l’esercizio della memoria è sempre più carente e deficitario, dove la storia e l’esperienza vengono con disinvoltura sorvolate, accantonate o riscritte a proprio piacimento, anche la memoria musicale pare non godere di grande salute. Si è portati a rifarsi solo a ciò che è successo l’altro ieri ignorando, e di conseguenza non conoscendo, le radici più salde della nostra storia». Ma le nuove generazioni scalpitano e lavorano sul rinnovamento, come ha sottolineato il giovane David Chierotti del direttivo: «I segnali sono emersi in questi anni, con giovani o emergenti cantautori premiati. Al Tenco la memoria è la base da cui partire per dialogare con il presente e parlare al futuro. Un’artista che sogniamo di invitare è Phoebe Bridgers, classe ’94, ma che è già oggi una delle migliori cantautrici internazionali».