Il dibattito tra Carlo Calenda e Jeffrey Sachs a Piazza Pulita, andato in onda giovedì scorso su La7, ha fatto prima il giro delle bacheche social italiane e poi, opportunamente sottotitolato in inglese, ha fatto letteralmente il giro del mondo (al momento in cui scrivo, il tweet in questione è arrivato a 3 milioni e 700 mila visualizzazioni), rilanciato da politici e giornalisti da ogni angolo del pianeta.

A difesa di Sachs e delle sue ridicole e conclamate falsità, com’era prevedibile, sono scesi in campo i soliti account dai nomi in cirillico su X e Marco Travaglio sul Fatto quotidiano. Dalla parte opposta, a complimentarsi con Calenda per avere finalmente chiamato bugie le bugie e propaganda la propaganda, le principali firme delle maggiori testate dell’occidente democratico, da Gideon Rachman del Financial Times ad Anne Applebaum dell’Atlantic. Più silenzioso, per ovvie ragioni, il giornalismo italiano, che di tutta la discussione suscitata dalla trasmissione era in realtà il vero oggetto.

Molto più del propagandista putiniano Sachs, cui nessuna persona in buona fede può credere, Calenda ha infatti svelato agli occhi del mondo tutta l’ipocrisia e la cattiva coscienza del giornalismo italiano, il modo in cui si nasconde dietro una distorta idea di pluralismo per aprire le porte a ogni possibile manipolazione e falsificazione. Il che è uno dei principali motivi per cui il nostro paese è sempre ai primi posti nelle classifiche su penetrazione e capacità di influenza della propaganda russa in Europa.

È un problema che risale molto indietro nel tempo e affonda le sue radici in una cultura antipolitica che viene almeno dagli anni sessanta, senza nessun bisogno di aspettare i troll del Cremlino. La triste verità è che in Italia non c’è bisogno di corrompere nessuno, perché la più vieta propaganda antioccidentale, antidemocratica e antiliberale corrisponde già perfettamente alla lingua comune del novantanove per cento dei nostri giornalisti e delle classi colte in generale, tanto a destra quanto a sinistra.

Nel denunciare questa situazione, nel dimostrare come la nostra instancabile fabbrica di guitti televisivi sia forse persino peggiore della famigerata fabbrica dei troll di San Pietroburgo, Calenda ha dunque reso un grande servizio anzitutto al nostro paese. Trattandosi però di un sistema chiuso, fondato su solidissime solidarietà corporative e generazionali, è probabile che alla fine l’unico che pagherà un prezzo per questa pubblica umiliazione sia proprio Calenda.

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