di
Gaia Piccardi
Jannik Sinner vince a Vienna davanti ai genitori e alla fidanzata Laila, seduta accanto a Mamma Siglinde. Poi, dopo le polemiche, ribadisce: «Sono italiano, mi sento italiano»
Dopo due ore e ventidue minuti, sul 5-5 40-40, cioè sul crinale tra trionfo e disastro (cit. Kipling), in cima a uno scambio di ventiquattro colpi giocato prevalentemente sulla diagonale del rovescio, Jannik Sinner evade dalla gabbia della geometria in cui l’ha chiuso Alexander Zverev — e da un certo, inusitato, anonimato nella prima parte del match — estraendo dalla racchetta la pepita che stava cercando nella sua personalissima miniera: un rovescio vincente in lungolinea con cui si prende il break decisivo e che indirizza la finale di Vienna a Sesto Pusteria, pochi chilometri al di là del confine con l’Austria. Sudtirolo, Italia.
A volte sono i dettagli a decidere la storia dello sport: se Sinner-Zverev a gennaio, in Australia, era stata una lezione di tecnica e tattica che aveva spedito il tedesco dentro una profonda crisi di risultati e fiducia, l’ottavo episodio di questa rivalità (ora 4-4) è un confronto a casa Sinner — il veloce indoor — che il n.3 del ranking regge a testa alta puntellandosi al servizio (75% di prime in campo ma poi alla fine a contare davvero è la loro produttività: Jannik ne ha messe dentro meno, 68%, però annettendosi il punto nell’82% delle volte), mentre l’azzurro è lento a carburare, meno a fuoco del solito e, quando l’acido lattico sale di livello insieme al match, duro sulle gambe: a tratti sembra prossimo al crampo come a Shanghai.
Ma essendo fatto di cuore, muscoli e fil di ferro, Jannik non arretra di un millimetro: perde il primo set 6-3 per colpa di un break da 40-0 (un Gronchi rosa al contrario), vince il secondo con lo stesso punteggio ritrovando la prima (da 58% a 80%), che usa come leva per infilarsi nelle crepe del rivale, e trova lo spunto nel finale, quando il suo body language vale più di tante parole, grazie alla ormai nota disponibilità alla sofferenza, quel non arretrare mai di fronte al dolore che nel 2024 gli permise di recuperare due set a Medvedev a Melbourne in una finale che pareva decisa, in occasione della conquista del primo titolo Slam.
«Ho cominciato malissimo, però con la testa sono rimasto dentro la partita» la fa facile lui dopo aver ringraziato pubblicamente i genitori in tribuna e, per la prima volta, la fidanzata danese Laila: «Il vostro sostegno significa tanto per me». Sorride sotto i coriandoli della premiazione, e si vede che non è una gioia di circostanza: a Vienna sta bene, sente gratitudine nei confronti di un torneo che gli aveva concesso una wild card nel lontano 2019, quando aveva 18 anni ed era fuori dai top 100, ha fatto colazione ogni giorno con mamma e papà, ha salutato gli amici arrivati in auto dalla Val Pusteria, ha sperimentato l’impagabile piacere di alzare la coppa (la 22ª, quarta stagionale) davanti a chi gli vuole bene, con il regista della tv austriaca che per una settimana si è divertito a cercare Laila mimetizzata tra gli spettatori.
In vista di Parigi, l’ultimo Master 100o stagionale e, soprattutto delle Atp Finals a Torino, dove difenderà il titolo (la Davis a Bologna, come sappiamo, non lo riguarderà), ci sono particolari di cui occuparsi. «Ho avuto dei crampetti — conferma —, niente a che vedere con la Cina: meno intensi. Fisicamente, ora, sto bene». Spiega che lo slice lo costringe a pensare, le smorzate invece (ieri abbondantemente usate) ormai gli vengono naturali, che pareggiare i conti con Zverev era importante («Non mi piace stare dietro nei confronti diretti…»). Si è accomiatato in dialetto sudtirolese: «Sono italiano, mi sento italiano: a me stesso chiedo sempre tutto. Il resto, viene da sé».
27 ottobre 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA