«Racconto in questo libro solo ciò che mi è successo». Alessandra Campedelli lo chiarisce subito e a leggere IO POSSO. Un’allenatrice di pallavolo in Pakistan e Iran, edito da Baldini & Castoldi, bisogna dire che è evidente quanto questa esperienza sia personale e vissuta. «Tutto con parole mie. Non ho voluto l’intervento di chi poteva magari avere un linguaggio che avrebbe attirato di più. Non ne sarebbe uscito il libro che volevo io».

È per questo probabilmente che, come dice all’inizio, spesso le fanno sempre le stesse domande.
«Mi chiedono perché sono partita, perché ho deciso di partire e chiaramente anche le mie risposte sono più o meno sempre le stesse. Da una parte il Covid mi aveva dato una possibilità di riflettere molto su alcune situazioni e non ero più soddisfatta di quello che stavo facendo. Volevo un’occasione che qui in Italia non mi veniva data. Volevo mettermi in gioco come allenatrice. Da vent’anni vivo il tema della donna allenatrice che non arriva mai nelle categorie superiori, resta sempre nelle giovanili. Mi si è presentata questa occasione e mi sono resa conto subito che mi avrebbe dato la possibilità di fare quello che che mi aveva insegnato a fare la vita, il mio passato, incontrarmi con culture diverse, con culture per me nuove e di provare, che era quella un po’ la mia sfida, a vivere queste culture da donna occidentale».
Da donna occidentale ma da dentro.
«Sì, dentro però nell’ambito sportivo. Non mi è stato permesso di entrare in altri ambiti in Iran. Mi sono trovata lì proprio nell’anno della morte di Mahsa Amini e questa evento segna un prima e un dopo nella mia esperienza, anche se c’è un fondo costante: questa società, questo governo, questa federazione che tiene la donna coperta perché dice che così viene dato spazio a quello che è dentro e non all’aspetto fisico. Il luogo comune c’era prima e dopo, ma il contesto è cambiato dopo la morte di Mahsa e per me la situazione è diventata insostenibile».
Quale è il limite? Cosa si può accettare, sopportare e cosa no?
«Ho provato un po’ a sopportare. Ero partita con una considerazione: lo sport non è politica. Continuo a dire che io non faccio sport per fare politica, la mia non è politica. In realtà sono arrivata a un punto, che è stato proprio il punto di rottura, l’incontro con Raisi, dove mi sono proprio resa conto forzatamente che lì lo sport era politica, che non potevo uscire da questa dinamica. Ci ho provato per mesi, ho provato a lasciare qualcosa a queste ragazze che non fosse appartenente alla sfera politica e governativa, alla fine ho capito che stavo lottando contri i mulini a vento. Io non volevo prestarmi più a questo gioco, lavorare per una federazione che faceva capo ad un governo di questo tipo, un governo sanguinario che stava uccidendo. Mi si sono aperti gli occhi e mi si è chiuso il cuore».