Requiem for a dream chi l’ha visto non l’ha più dimenticato. Non ha neppure più voluto rivederlo con ogni probabilità. Ad un quarto di secolo dalla sua prima uscita in sala, il visionario film di Darren Aronofsky rimane unico, irripetibile, il simbolo stesso del passaggio tra il XX e il XXI secolo, con tutti i timori, drammi e paure irrisolte che tale momento portava con sé.

Un onirico e inquietante trattato sul concetto di dipendenza

Requiem for a dream di Darren Aronofsky dopo 25 anni continua ad essere un oggetto cinematografico assolutamente affascinante, inquietante, il simbolo ultimo e più genuino di tutta quella cinematografia degli anni ’90 che cercava di parlarci di una crisi di valori e di umanità ormai impossibile da fermare. Fu l’ultimo affondo di quel cinema autoriale ad alta percentuale di follia e audacia, nonché una sintesi di tutto ciò che di profondo e tormentato quel decennio aveva lasciato dietro di sé. A dirla tutta, quello che ancora oggi molti ritengono il film più coraggioso e potente del regista americano, è diventato nel corso degli anni un cult generazionale. La Generazione X e anche quella Millennial, vi videro una rappresentazione perfetta delle contraddizioni, speranze, delusioni, della paura di ciò che poi sarebbe stata la società negli anni a venire. Dietro la patina di dramma onirico, melodramma psichedelico, Requiem for a dream è un trattato sociale, esistenziale, forse definitivo.

Non deve stupire tale complessità semantica, d’altro canto il nacque dalla volontà da parte del produttore Eric Watson di avere è proprio lui, Darren Aronofsky, a trasportare sul grande schermo il romanzo originale del 1978 di Hubert Selby Jr. Quel libro era indicato come la summa di tutto ciò che era stata la grande illusione degli anni ’70, il testamento stesso dell’american dream e soprattutto un’analisi profonda della dipendenza in senso universale. Produzione complicata, per la necessità di riadattare quelle pagine, per una produzione che recluta persino veri tossicodipendenti sul set. Il risultato finale fu un film che ancora oggi, dopo tanto tempo, è una vera e propria esperienza, non un’opera cinematografica come le altre. Requiem for a dream è diviso in tre capitoli, ognuno dei quali rappresenta una diversa stagione, tranne la primavera, la stagione della rinascita. In questa storia, nel dramma della dipendenza di Sara Goldfarb (Ellen Burstyn), di suo figlio Harry (Jared Leto), della sua fidanzata Marion (Jennifer Connelly) e del loro amico Tyrone (Marlon Wayans).

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Il film parla di quel sogno legato che segnerà una momentanea ascesa, poi la caduta e infine la rovina di quelle quattro anime, perse tra Brighton Beach e Coney Island. Se alla fine degli anni ’70 Selby Jr. ci aveva parlato della fine del sogno americano, connesso alla tragedia della guerra nel Vietnam e alle droghe che essa aveva contribuito a mettere in circolo. Quel libro era stato il de profundis dedicato all’epoca della contestazione, alle speranze distrutte di una generazione che non riuscì a cambiare il mondo. Gli anni ’90 non erano stati da meno. Requiem for a dream esce nel pieno dei timori e delle paure di ciò che sarà quel XXI secolo, e come sempre capita, l’arte anticipa la storia. Il concetto della fine di tutto, dell’inizio di qualcosa di diverso, ma non necessariamente positivo, era stato portato sul grande schermo diverse altre volte in quegli anni, in più generi. Basti pensare a Strange Days, Johnny Mnemonic, The Dark City, ma anche a Magnolia, per non parlare di Fight Club, anch’esso uscito nel 1999.

Si era cementata un’atmosfera apocalittica, distopica, una sensazione di sconfitta e occasione perduta verso il decennio ottimista. Qualcosa sta per spezzarsi, sta per rompere un equilibrio o ciò che ne era rimasto. E dire che quegli anni erano stati gli anni della Terza Via, del perfetto equilibrio tra tecnologia e società, tra individuo e collettività. Gli anni ‘90 sono stati anche il decennio simbolo della riscossa del movimento femminista, l’emancipazione del movimento LGBTQ+, il trionfo di una pop colture slegata da una visione esclusivamente consumista o machista, insomma un decennio molto più equilibrato e paritario, molto più felice degli anni ‘80. Oppure no? Requiem for a dream cancella ogni illusione, ci ricorda che quel decennio è stato dominato dalle note rabbiose e malinconiche di Kurt Cobain e di 2Pac, ci parla di quattro persone che non riescono a tirarsi fuori da una visione assolutamente irreale, nonché egoista e tossica, della loro esistenza.

Una sinistra profezia sulla società dell’individualismo tossico

Gli anni ’90 sono stati gli anni dell’eroina, cocaina e del crack, e la tossicodipendenza è ciò che assedia Harry, Marion e Tyrone. Requiem for a dream quasi cerca di disinnescare questo dramma all’inizio, ci parla di amore, amicizia, del denaro che servirà a realizzare un sogno. Poi c’è Sara. Se quei tre ragazzi sono vittime di una ricerca del piacere e del sogno, lei è forse il personaggio più inquietante perché, oltre ad essere una pessima madre, è anche una vittima di un’altra dipendenza: quella dello sguardo degli altri. Non sono le anfetamine a rovinarla, neppure la dieta folle, è l’idea di dover essere magra per forza per andare in uno show televisivo, è la dipendenza da quello schermo irreale, da quella che le sorelle Wachowski in The Matrix avevano definito l’anno prima come “immagine residua di sé”. Requiem for a dream tale concetto lo rende l’asse portante di un percorso di disfacimento terrificante, ai limiti del folle, abbondantemente psichedelico, attraverso cui Darren Aronofsky ci regala una delle prove di regia più incredibili di quel periodo.