di
Marco Bonarrigo

Domenica a Santiago del Cile ha chiuso la sua carriera con una straordinaria medaglia d’oro ai Mondiali. E oggi, a 36 anni, Elia Viviani è un ex ciclista: «Terminare con un podio sarebbe stato magnifico, ma correre per un bronzo… Ho deciso di puntare all’oro e lasciare che dietro si scannassero in volata»

«Mi ero tenuto uno spazio nella testa, nelle gambe e nel cuore per il Mondiale e credo di averlo riempito nel modo migliore. Di sicuro domenica sera sulla pista di Santiago del Cile mi sono giocato tutta l’adrenalina rimastami in corpo dopo vent’anni di agonismo. Sono stati i miei ultimi dieci minuti da atleta, vissuti con una competitività che non ritroverò mai più nella vita normale, qualunque cosa io possa fare».

Pianificati in modo meticolosamente feroce, gli ultimi dieci minuti della carriera sportiva di Elia Viviani hanno regalato all’Italia il titolo mondiale nell’Eliminazione, la gara più vibrante e crudele del programma della pista. Un atleta a cui nessuno poteva più permettersi di chiedere nulla (quindici stagioni da professionista, oro, argento e bronzo in tre diverse edizioni dei Giochi, tre ori, due argenti e cinque bronzi mondiali, oltre a un titolo europeo e a tappe in tutti i tre grandi giri su strada), ha deciso di appendere la bici al chiodo non con la solita passerella celebrativa ma con una straordinaria vittoria. Subito dopo la gara, con la moglie Elena Cecchini, con il suo «allievo» Filippo Ganna e lo storico procuratore Giovanni Lombardi, Elia ha preso un volo dal Cile alla Colombia e poi, a Cartagena, si è imbarcato per la prima vacanza da libero cittadino della sua vita. È in barca che lo raggiungiamo al telefono.



















































Come ha vissuto gli ultimi dieci minuti della sua prima vita, Elia?
«Concentrazione assoluta, massimo controllo sulla pista e sui miei movimenti rispetto agli avversari. Dalla balaustra il commissario tecnico Salvoldi faceva la conta di chi rimaneva in gara dopo ogni eliminazione, partendo da -12 perché è quella — fino a quando si resta a lottare in sei — la fase più delicata. Io ascoltavo e rimanevo avanti per evitare ogni pericolo».

E quando siete rimasti in sei?
«Ho cominciato a riflettere. Terminare la carriera con un podio, magari con un terzo posto, sarebbe stato già magnifico, ma correre per un bronzo non è come correre per vincere, cambia completamente la tattica. Ho deciso di puntare all’oro e quindi sono rimasto davanti lasciando che dietro si scannassero in volata».

Era certo di farcela?
«No, però sapevo di disporre di ottime carte. Nelle settimane precedenti alla gara, sulla pista di Montichiari, avevo sfidato il tecnico Cristini che girava in Vespa: sapevo di poter tenere i 400 watt per 10/12 minuti senza crollare e in quel momento avevo ancora 15/20 watt di margine. Bastava non fare stupidaggini o cadere o sbagliare una volata. Sono rimasto chiuso soltanto una volta, ma me la sono cavata: avere contezza di essere in forma aiuta ad essere più lucidi».

Fino allo sprint finale.
«L’argento a quel punto non mi bastava più. Nell’ultimo testa a testa con il neozelandese pensavo di anticiparlo, sapendo che correvamo su una pista dove sarebbe stato difficile rimontare. Però al momento di lanciare l’attacco eravamo alti sull’anello e rischiavo che lui mi chiudesse ogni spazio scendendo alla corda, facendomi buttare via il Mondiale. Quindi ho deciso di giocarmi il tutto in un testa a testa ed è andata bene».

L’Eliminazione è una corsa a «uccidere» un avversario dopo l’altro, tutt’altra cosa rispetto a una volata.
«È una prova dove non si arriva a odiarsi, questo no, ma ci sfida a viso aperto per fregarsi a vicenda: in bici è la sfida più feroce. Capita di fare a spallate o di ringhiarsi addosso con chi condivide la pista con te da anni. È particolare perché, se un giro prima ti sei alleato con uno per fare fuori il grande favorito poi devi allargare le spalle per non far passare il tuo ex socio. Siamo gladiatori».

Come funziona l’Eliminazione perfetta?
«Si parte a razzo perché tutti vogliono essere davanti e quindi devi investire energie per non finire nei casini. Poi il gioco è assicurarti di avere sempre qualcuno dietro la tua ruota: quando mi avete visto in mezzo al gruppo è perché sapevo che nessuno avrebbe mai potuto passarmi. È importante recuperare nel giro senza volata (gli sprint sono ogni due giri, ndr) e alla fine devi essere abbastanza furbo e sveglio da sfruttare le ruote degli altri per salvare la gamba».

Lei ha 36 anni, corre in bici da quando ne aveva sei. C’è tristezza o nostalgia nel cambiare mondo?
«C’è gioia, solo piena gioia. Sarebbe stato triste se tutto si fosse chiuso lo scorso anno, quando dovevo assolutamente trovare un team per arrivare ai Mondiali e nessuno mi voleva. Ho vissuto un finale perfetto e c’è veramente solo felicità dentro di me. La mia bici resterà nel velodromo di Montichiari e quando mi va tornerò a fare qualche giro».

Montichiari è l’unico velodromo italiano, ha un’agibilità parziale e non ci sono alternative. La pista azzurra vince da oltre dieci anni ma non ha una sua casa.
«Paghiamo questa situazione, paghiamo il fatto che il velodromo può essere usato solo dalla Nazionale maggiore e non dai giovani. Un primo step sarebbe l’arrivo dell’agibilità definitiva e poi servono altri velodromi, non cattedrali da diecimila posti, complicatissimi da gestire, ma impianti da dieci milioni di euro che diano ossigeno alla disciplina».

Cosa farà da grande Elia Viviani?
«Ho tantissime proposte in vari settori, da aziende e squadre: al ritorno dalle vacanze dovrò decidere. Rimarrò nell’ambiente e farò ancora tanto per il ciclismo decidendo tra un impegno grosso e unico o dividermi tra vari impegni cercando però di gestirli con grande serietà, come ho sempre fatto».

27 ottobre 2025 ( modifica il 27 ottobre 2025 | 19:40)