Riscopri la discografia dei Pink Floyd in questa classifica. I 15 album in studio dal peggiore al migliore: tra debutti psichedelici ed opere concettuali
Esistono band che hanno scritto pagine di storia del rock. E poi ci sono i Pink Floyd, che ne hanno riscritto le regole e che ogni anno finiscono per essere sempre al primo posto nelle classifiche dei vinili più venduti.
Segno che, oltre ad aver fatto innamorare milioni di fan nei periodi di maggiore splendore, sono tra le band maggiormente in grado di attraversare le generazioni.
Dai sogni psichedelici di The Piper At The Gates Of Dawn all’introspezione epica di The Dark Side Of The Moon, passando per la furia politica di Animals e l’imponente costruzione narrativa di The Wall, la discografia dei Pink Floyd è un viaggio tra sperimentazione sonora, visioni concettuali e disintegrazione umana.
In oltre quarant’anni di carriera – tra crisi interne, abbandoni eccellenti, reunion parziali e tour colossali – la band inglese ha saputo trasformarsi continuamente, restando sempre fedele a una sola cosa: l’idea che la musica possa essere arte totale.
Questa classifica ripercorre i 15 album in studio dei Pink Floyd, ordinati dal meno riuscito al capolavoro assoluto, tenendo conto di aspetti musicali, concettuali e dell’impatto culturale.
Dai primi esperimenti lisergici con Syd Barrett alle maestose architetture di Roger Waters, fino all’eleganza melodica della fase Gilmour, ogni disco è una tappa in un universo musicale che ha sfidato la normalità per costruire qualcosa di unico.
Pink Floyd, tutti gli album in studio dal peggiore al migliore15 Ummagumma (1969)
Quarto lavoro in studio dei Pink Floyd, Ummagumma fu pubblicato come doppio album nel novembre del 1969. Su un disco ci sono alcune canzoni live registrate a Birmingham e Manchester nella primavera dello stesso anno, nell’altro una raccolta di momenti da solista registrati da ogni membro della band.
Tutti i membri dei Pink Floyd si impegnarono in un tempo limitato a creare qualcosa in totale autonomia, anche trovando qualche difficoltà, come nel caso di Gilmour. La somma, però, è sempre maggiore delle sue parti e anche in questo caso il risultato non sembra essere all’altezza del potenziale dei Pink Floyd.
Il progetto appare più come un esperimento isolato che un vero passo avanti. Interessante come fotografia del momento, ma dispersivo nella sostanza. I live, invece, mostrano una band già potente sul palco.
14 A Momentary Laps Of Reason (1987)
A Momentary Lapse Of Reason, probabilmente, non è uno degli album più memorabili dei Pink Floyd ma ha sicuramente una sua particolare importanza all’interno della storia della band.
Pubblicato nel settembre del 1987, è il primo album della band pubblicato senza Roger Waters che aveva abbandonato in modo poco amichevole i compagni due anni prima.
Ben lontano dalle classiche opere rock dei Pink Floyd, l’album si presenta come una semplice raccolta di canzoni che cerca di tenere il passo con la musica di quegli anni. Un suono in pieno stile anni ’80 e una produzione impeccabile per l’epoca, però, non sono sufficienti ad alzare l’asticella.
Gilmour, che sembra voler far sentire la sua presenza come semplice risposta al precedente esercizio di Waters in The Final Cut, si concentra meno del dovuto sulla scrittura facendo registrare un’occasione sprecata.
Ciononostante, brani come “Learning to Fly” e “Sorrow” offrono momenti di brillantezza che si stagliano in un contesto altalenante.
13 More (1969)
Un disco di transizione, con Gilmour che – per la prima volta – si fa carico della parte cantata mentre Waters cerca di farsi carico del ruolo di cantautore che fu di Barrett.
Colonna sonora per il film More di Barbet Schroeder, il terzo album dei Pink Floyd spazia tra i suoni in un modo che apre all’approccio sperimentale che segnerà il futuro della band ma con diversi scivoloni nella confusione.
Tra ballate acustiche e rumori acidi, More ha il sapore di un laboratorio aperto più che di un disco compiuto.
Nonostante le imperfezioni, offre spunti grezzi ma suggestivi, come “Cymbaline”, “The Nile Song” e “Green Is The Colour”, che mostrano il potenziale nascente della nuova formazione.
12. The Endless River (2014)
Pubblicato vent’anni dopo The Division Bell, The Endless River è più un commiato che un nuovo inizio. Composto quasi interamente da materiale strumentale derivato dalle sessioni del 1994, rappresenta un omaggio postumo a Richard Wright.
Atmosferico e contemplativo, il disco vive di riverberi e suggestioni, ma fatica a lasciare un segno concreto. È un’opera crepuscolare, che guarda più al passato che al futuro, sigillando con eleganza un viaggio irripetibile. Tocca, ma non scuote.
Chi cerca una narrazione o un concept ne resterà deluso, ma chi si abbandona all’ascolto troverà un senso di chiusura intimo e delicato. È il requiem silenzioso dei Pink Floyd.
11. The Final Cut (1983)
Concepito come una sorta di epilogo tematico a The Wall, The Final Cut è il disco più personale – e divisivo – di Roger Waters. La band è ormai ridotta ai minimi termini, con Gilmour relegato a comprimario e Wright già fuori dai giochi.
Il suono è cupo, teatrale, carico di dolore e disillusione. Nonostante l’intensità lirica, la mancanza di coesione tra i membri e l’eccessivo controllo autorale lo rendono più vicino a un album solista che a un’opera collettiva. Necessario, ma non memorabile.
L’antimilitarismo di Waters domina ogni traccia, ma il pathos non basta a compensare una certa ripetitività. È un addio amaro a un’epoca ormai finita.
10. Obscured By Clouds (1972)
Seconda colonna sonora per Barbet Schroeder, Obscured By Clouds è spesso dimenticato tra i grandi classici, ma mostra una band in transizione. Meno psichedelia e più canzone, con melodie dirette e momenti che anticipano The Dark Side Of The Moon.
C’è un certo fascino ruvido e terreno in brani come “Wot’s… Uh the Deal” o “Free Four”, ma manca ancora quella coesione concettuale che arriverà l’anno dopo.
È un disco che vive più di pancia che di testa, e forse proprio per questo mantiene un suo fascino sincero. Un lavoro solido, sottovalutato.
9. The Division Bell (1994)
Secondo (e ultimo) album post-Waters, The Division Bell è l’apice della fase Gilmour-centrica dei Pink Floyd. La band riscopre il piacere di suonare insieme, con Wright nuovamente in campo e una produzione curatissima.
I temi della comunicazione e dell’incomunicabilità – non a caso – riflettono le fratture interne della band. Canzoni come “High Hopes” e “Keep Talking” brillano per intensità e malinconia.
È un disco solido, che non cerca la rivoluzione ma la riflessione. Gilmour si prende i suoi spazi con classe e misura.
8. A Saucerful Of Secrets (1968)
Il disco che segna il passaggio tra il mondo visionario di Syd Barrett e la nuova era capitanata da Waters e Gilmour. A Saucerful Of Secrets è un’opera schizofrenica ma affascinante, divisa tra psichedelia lisergica e sperimentazione strutturata.
La suite strumentale omonima è un assaggio di ciò che verrà, mentre “Set The Controls For The Heart Of The Sun” è una delle prime vere perle della poetica floydiana.
Caotico ma vitale, ha il sapore delle origini e del futuro insieme. È il ponte tra due mondi, tra due leadership, tra due idee di musica.
7. Atom Heart Mother (1970)
Orchestra, rock, sperimentazione: Atom Heart Mother è il disco che più di tutti mostra l’ambizione (e la follia) dei primi anni ’70. L’omonima suite di oltre 20 minuti, realizzata con Ron Geesin, è un monumento barocco e imperfetto.
Tra corni, moog e momenti pastorali, la band cerca una direzione che ancora sfugge, ma che si intuisce.
La seconda parte del disco, più semplice e acustica, anticipa certe atmosfere future.
In bilico tra megalomania e intuizione geniale, è il prototipo del progressive rock in stile Pink Floyd. Una scommessa (quasi) vinta.
6. Meddle (1971)
Con Meddle i Pink Floyd trovano finalmente la loro voce. L’album si apre con la strumentale “One Of These Days” e si chiude con la suite di 23 minuti “Echoes”, che preannuncia la grandezza dei dischi a venire.
C’è ancora sperimentazione, ma incanalata in strutture più coese e potenti. Meddle è il punto di svolta: il suono è pieno, la band è unita, l’orizzonte è chiaro.
È un disco in cui si sente per la prima volta il respiro “galattico” dei Pink Floyd che verranno. È la nascita di uno stile.
5. Animals (1977)
Cupo, arrabbiato, politico: Animals è la risposta dei Pink Floyd al punk e al disincanto degli anni ’70. Un concept feroce ispirato a Orwell, dove l’umanità è ridotta a cani, maiali e pecore.
Il disco è dominato da Roger Waters, ma Gilmour regala una delle sue migliori performance chitarristiche. I brani sono lunghi, articolati, spesso claustrofobici, ma portano il marchio di fabbrica di una band che non ha paura di sporcarsi le mani.
Non è l’album più accessibile, ma è uno dei più coerenti, moderni e incisivi. Ancora oggi attualissimo.
4. The Wall (1979)
Il disco più celebre, amato, suonato. The Wall è un’opera rock monumentale che racconta la caduta di un uomo, ma anche quella di un’epoca. Waters prende il controllo assoluto e costruisce un muro sonoro e lirico con mattoni fatti di dolore, isolamento e rabbia.
Canzoni come “Another Brick In The Wall”, “Comfortably Numb” e “Hey You” sono ormai leggenda.
L’album è perfetto? No. Ma il suo impatto culturale è incalcolabile.
Diviso, teatrale, ambizioso fino all’eccesso: The Wall è il simbolo di un genio che rischia il collasso. E ci riesce.
3. The Piper At The Gates Of Dawn (1967)
Il disco d’esordio, l’unico firmato integralmente da Syd Barrett, è un viaggio acido nel cuore della Swinging London. Psichedelia pura, nonsense poetico, visioni cosmiche e infantili convivono in un universo che esplode in ogni direzione.
“The Gnome”, “Interstellar Overdrive”, “Lucifer Sam” – brani che sembrano usciti da un altro mondo. È il punto di origine e insieme un universo a sé. Nessun altro disco suona così.
Una meteora, certo, ma che ha lasciato una scia indelebile. Inizio e fine in un solo gesto.
2. Wish You Were Here (1975)
È il disco della nostalgia, della perdita, della memoria. Wish You Were Here è il saluto a Syd Barrett, ma anche una riflessione sul vuoto dell’industria musicale. Solo cinque tracce, ma tutte scolpite nella storia.
“Shine On You Crazy Diamond” è un lamento dolce e psichedelico, mentre la title track è forse la canzone più toccante mai scritta dalla band. È l’equilibrio perfetto tra cuore e cervello, tra suono e silenzio.
Una delle vette emotive della discografia. Semplice, elegante, eterno.
1. The Dark Side Of The Moon (1973)
L’album definitivo. Un capolavoro assoluto che ha ridefinito il concetto stesso di album rock. The Dark Side Of The Moon è un viaggio concettuale attraverso il tempo, la morte, la follia, la vita moderna.
Registrato con cura maniacale, con un suono avveniristico e una struttura impeccabile, è rimasto in classifica per oltre 900 settimane.
Brani come “Time”, “Money” e “Us and Them” sono entrati nella cultura pop. È l’album in cui ogni elemento trova un equilibrio: i testi di Waters, la chitarra di Gilmour, le tastiere di Wright e le intuizioni ritmiche di Mason convivono come mai prima.
L’utilizzo pionieristico del sintetizzatore EMS, i loop di voci e la produzione di Alan Parsons hanno reso il disco una pietra miliare anche da un punto di vista tecnico.
Non è un disco narrativo in senso stretto, ma un flusso continuo dove i temi si intrecciano con coerenza, dalla pressione sociale all’alienazione personale.
Anche se concepito in un periodo storico preciso, continua a parlare all’ascoltatore contemporaneo con una lucidità sorprendente.
The Dark Side of the Moon non è il punto d’arrivo di un’epoca, ma l’inizio di una nuova grammatica sonora. Ecco perché resta ancora oggi una pietra di paragone per chiunque voglia fare musica che abbia qualcosa da dire.