di
Giangiacomo Schiavi

L’architetto Carlo Ratti: «Ridotto il verde e facciate diverse. L’organo comunale è spesso opaco e arbitrario. Chi ne fa parte non rappresenta il livello culturale della città»

Effetto Commissione Paesaggio: l’architetto Carlo Ratti ritira la firma dal campus dell’Università di Milano nell’aerea Expo. Il progetto, dice al Corriere, non è più il suo progetto. Le variazioni imposte dai regolatori dell’urbanistica finiti sotto inchiesta hanno stravolto il disegno originario, ridotto il verde, modificato le facciate. «Il percorso si è inceppato», spiega il designer che dirige il Senseable City Lab al Mit di Boston ed è nella top ten mondiale tra gli studiosi di pianificazione urbana e futuro delle città.

Professor Ratti, la sua ritirata getta altre ombre sull’operato della Commissione al centro dello scandalo urbanistico milanese. Ed è un brutto segnale per il progetto Mind, con il gruppo Landlease…
«Ricordo quando presentammo il progetto al governo. La visione era chiara: creare un motore di innovazione per la città. Dopo il masterplan vincitore di un concorso internazionale, abbiamo sviluppato un progetto di campus per l’Università di Milano coerente con quella visione. Era ispirato alla Ca’ Granda e ai college inglesi».



















































Che cosa è successo dopo?
«Sin dalle prime fasi del progetto, il braccio di ferro tra metri quadrati e budget è stato molto tirato. Con l’avvio del cantiere, il divario si è ulteriormente acuito. E la Commissione Paesaggio ha imposto modifiche discutibili, arrivando a prendere in mano la matita al posto dei progettisti».

La Commissione Paesaggio aveva questo potere?
«Ci ha costretto a cambiare il disegno delle facciate e a eliminare il grande spazio verde centrale che avevamo pensato come punto di incontro per studenti e docenti. Al suo posto ci è stato chiesto un modello simile alla Bicocca: un vuoto urbano che non funziona dal punto di vista educativo. Abbiamo quindi comunicato all’università e a Lendlease che ritireremo il nostro nome dal progetto».

È una sconfitta per l’urbanistica milanese…
«Se l’università è il motore della città, bisogna trattarla come tale.
Ho trascorso gran parte della mia vita a Cambridge, prima quella inglese e poi quella americana. Entrambe mostrano quanto l’economia della conoscenza possa essere un motore potentissimo, a patto che il campus sia un centro vivo, capace di irradiare energia. È la lezione della Silicon Valley, con l’università di Stanford al centro, e che oggi raggiunge le città globali».

Il costo della vita non aiuta chi studia a Milano…
«Purtroppo Milano è, come si dice in inglese, a victim of its own success. Da quando esistono le città, se una città ha successo la domanda cresce e i prezzi salgono: è un segno di desiderabilità. Il problema è che qui tutto è accaduto molto in fretta e forse non siamo stati capaci di gestirlo. Da qui gli scombussolamenti che molti percepiscono».

Per qualcuno Milano è un modello, per altri un sistema, per la magistratura un comitato d’affari. Troppo severo l’ultimo giudizio?
«Credo di sì. Milano ha agito come un prototipo per il Paese: ha assorbito rischi, sperimentato modelli. L’Italia ha bisogno di città che osino, anche a costo di scottarsi. Non dobbiamo punire l’ambizione. Forse Milano ha sbagliato nell’andare troppo in fretta…».

Che cosa è stata Milano in questi anni?
«Negli ultimi anni è stata l’unica città italiana a giocare nella lega delle città globali. In un Paese che fatica a cambiare, Milano rappresenta un’interfaccia con il mondo. E quando quell’interfaccia funziona, il sistema nazionale — culturale, economico, politico — funziona meglio».

Come era vista la città all’estero prima di Expo ?
«Una città cupa. Prima del 2015 Milano sembrava incerta della propria identità. L’Expo è stato un punto di svolta. I grandi eventi hanno questo potere: allineano le forze cittadine, impongono una scadenza, costringono a fare squadra. E Milano ha risposto con successo, reinventandosi — come accadde a Barcellona con le Olimpiadi del 1992».

Come vede Milano oggi?
«Proprio come la vedevano gli antichi romani: Mediolanum, la terra di mezzo. Allora era il centro della pianura; oggi è al centro di una rete di global cities, per usare il termine coniato dalla mia collega Saskia Sassen qualche decennio fa».

Non trova esagerate le licenze ai grattacieli nei cortili?
«Se dovessi fare un appunto al governo municipale, riguarderebbe la Commissione Paesaggio: spesso opaca e arbitraria e popolata da figure che non rappresentano il livello culturale di Milano».

Serve un ripensamento urbanistico?
«Sì. È necessario introdurre nuovi strumenti per l’accessibilità. Ci sono esempi virtuosi: Singapore, con il lavoro della Housing Development Board; New York, dove si può costruire di più se si includono alloggi a prezzo calmierato».

Chi sceglie la citta del futuro?
«Devono essere i cittadini a scegliere. La città può essere alta o bassa: a Parigi stiamo lavorando su due grandi progetti sotto i dieci piani, mentre a Singapore abbiamo da poco completato il grattacielo più alto della città. L’importante è ascoltare i cittadini».

Nelle nuove città c’è più visione o più confusione?
«Una nuova visione nasce spesso dalla seconda. Ricorda Gramsci? “Il vecchio mondo sta morendo, il nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri.” È proprio nel chiaroscuro che si deve progettare. Dal latino proicere, “gettare oltre” — insomma pensare al futuro».

San Siro si poteva rigenerare?
«In generale, rigenerare è il futuro: come mostriamo alla Biennale di Architettura, bisogna partire da ciò che già esiste, riusare il più possibile e ridurre il consumo di suolo vergine. Detto questo, ho grande stima per Norman Foster e sono certo che il suo progetto sarà eccezionale».

Il futuro di Milano come lo disegnerebbe su una mappa?
«Sempre come un punto di mezzo, un medium. Anche se oggi, attorno, non ci sono più le province lombarde: c’è il mondo intero, con tutta la sua complessità».

29 ottobre 2025