L’agente, figlio dell’ex ct: “Evitò le polemiche di Calciopoli. Prima di dire sì alla Juve andò sulla tomba del nonno socialista e anti Agnelli. Quel cappotto fino a maggio e quel cerotto per scaramanzia”
Giornalista
29 ottobre 2025 (modifica alle 10:16) – MILANO
“Come sta papà? Tutto bene?”. E io: “’Sì, bene, bene, ma non possiamo parlare dei giocatori?’. Comincio il mio primo calciomercato e per i ds sono il figlio di Lippi, non Davide l’agente. Non è facile. Non voglio dire di non aver trovato porte aperte grazie al mio nome. Dopo, però, non mi ha regalato niente nessuno e ho fatto da me”. Davide Lippi è un agente affermato e ha fondato Reset Group che gestisce con l’amico e socio Carlo Diana: un’agenzia che si occupa di trasferimenti ma anche di valorizzazione dell’immagine dei calciatori e, da qualche anno, anche di atleti di altri sport importanti. Tutto comincia quando papà Marcello gli ha fatto il discorso più difficile della sua vita.
Lei ha vent’anni, gioca a calcio in C2, vuole diventare un calciatore ma…
“Sto per andare in C1, è fine stagione, maggio, e papà mi chiama in spiaggia a Viareggio. Ha una faccia un po’ triste. ‘Senti, ci sarebbe un’opportunità unica di crescita professionale alla Juve, da manager, ma certo non potresti più giocare…’. Un colpo duro. Ma come: mio padre, la “leggenda”, come lo chiamo, che dice a suo figlio di smettere”.
“Mi arrabbio. Ci resto male. Ci penso una settimana. Poi mi decido e dico sì, anche se a lui non parlo per mesi. Vado a Torino a vivere a casa di un amico, non da lui. Però ha visto giusto anche per questa… formazione. Non so dove sarei arrivato giocando, non ai livelli in cui sono da agente”.
Marcello ha fatto il papà prendendosi una responsabilità terribile verso il figlio.
“Non sempre è stato fisicamente presente ma non ci ha fatto mancare niente. Capisco perfettamente, perché s’è dedicato al lavoro di allenatore con tutto se stesso e, in questi casi, qualcosa lasci per strada: la coperta è corta da un lato. Ma non era assente, ci ha trasmesso i suoi valori e poi c’era un’altra fuoriclasse, mamma, a fare per lei e per lui”.
Se lo ricorda da giocatore?
“Pochissimo perché io ero molto piccolo, sono nato nel ’77 e lui smette nell’82. Mamma mi portava allo stadio e diceva: ‘Guarda, papà è quello…’. Samp, Pistoiese, Lucchese, i primi club da allenatore, non riuscivo a tifare per una squadra che già l’anno dopo si cambiava. Ho rivisto i video dell’epoca: era un libero classico, un metro dietro la difesa, fortissimo di testa e di grande personalità. Come in panchina”.
“Prima” da allenatore al Pontedera.
“Non voleva continuare con i giovani. Il ds Nelso Ricci chiamava sempre a casa e neanche diceva ‘pronto, sono…’ ma ‘Marcelloooo’, con il suo vocione. E io: ‘Un attimo, un attimo, lo chiamo’…”.
Siena, Cesena, e i primi esoneri.
“Sempre alla diciassettesima giornata, Siena e Cesena. Un po’ di pensieri scaramantici vengono. Lui lo è a volte. Una stagione allena con un cappotto beige fino a maggio. Un’altra, alla Juve, dopo una ferita, mette un cerotto ogni domenica al dito, non lo toglie mai. Ma quello superstizioso è Moggi”.
Parliamo di un altro calcio.
“A Siena vive nel quartiere della Torre: ha una Volvo verde bottiglia, noi andiamo a trovarlo da Viareggio con la direttissima, la corriera che ci metteva non so quante ore. Non dimentico però Lugaresi, il presidente del Cesena che gli comunica l’esonero in lacrime: ‘Non avrei voluto’, gli dice. Papà con lui era stato un signore”.
“Aveva dato la parola che sarebbe rimasto, subito dopo è arrivata l’Atalanta ma lui non ha ceduto. Sarebbe andato lo stesso a Bergamo ma dopo, una grande Atalanta con Ganz, Rambaudi, Perrone e Montero, amico di una vita. Verso fine stagione non gli piace che parlino con Prandelli e va via. Al Napoli”.
Facciamo un viaggio assieme, da soli, in Brasile, in cerca di nomi. Mai fatto prima, è bellissimo”
Davide Lippi
“Città e squadra dove sarebbe voluto tornare. Vive a Posillipo, Discesa Gaiola, ha un appartamentino a strapiombo sul mare, una scaletta che arrivava in acqua e la sera, mentre fuma il sigaro, passano i pescatori e gli dicono: ‘Ué, mistér, iamme a piscare’. E andava. Società in difficoltà, i giocatori che la mettono in mora, ma arriva in Coppa Uefa”.
Moggi lo chiama alla Juve e…
“E lui va sulla tomba del nonno, vecchio socialistone toscano anti Agnelli, a chiedere scusa perché accetta. Capisce i nostri valori familiari?”.
Si capisce dalle dimissioni da ct campione dopo il Mondiale.
“Voglio andare via dalla Gea, non mi sento gratificato, ma papà mi dice: ‘Non adesso, non si lascia la barca nella tempesta’. Non me l’ha mai detto, ma lascia la Nazionale per proteggermi, con il dolore dentro perché sarebbe rimasto e i giocatori lo volevano. C’è Calciopoli, il mio nome è facile da mettere in mezzo. Magari avrebbe vinto anche l’Europeo, preferisce fare il papà che il ct, poi commette l’errore di tornare due anni dopo”.
Non l’unica volta in cui deve scegliere tra il figlio e il lavoro.
“Sceglie sempre me. Nel 2016 lo vogliono dt della Nazionale ma poi si accorgono che io sono agente e non si può: incompatibilità. Mah. Va a parlare con il garante delle opportunità e gli dice: ‘Ma allora il notaio non può avere un figlio notaio?’. Niente da fare. Oltretutto non ha mai messo becco nel mio lavoro. Anzi, me lo dice subito quando comincio”.
“’Davide, guarda che non prenderò mai un tuo giocatore in un mio club’. Mantiene la parola, anzi, uno c’è, è Brocchi. L’unico. Quando va al Guangzhou, però, gli dico: ‘Papà, e mo’ basta con questa storia. Puoi avere un mio giocatore’. Prendiamo Elkeson che per il club diventa una plusvalenza di 17 milioni, oltre a essere un grande attaccante. E facciamo un viaggio assieme, da soli, in Brasile, in cerca di nomi. Mai fatto prima, è bellissimo. Lui incontra anche Pelè, il suo idolo. Ma il mio idolo è papà”.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
