Donald Trump ha imparato un trucco dai cinesi: divulgare i dettagli del summit bilaterale il più presto possibile, per essere il primo a influenzare i media. Xi Jinping ha imparato un trucco da The Donald: dichiarare vittoria, sempre e per principio.

La verità è che una sfida complessa come quella fra America e Cina non si presta a bilanci frettolosi come una partita di calcio. Chi ha vinto, chi ha perso, lo sapremo solo nel lungo periodo e dipenderà da tante variabili, non solo dall’accordo. Né si può escludere l’ipotesi di un pareggio. Comunque sia l’intesa assomiglia per adesso a una tregua armata, non molto di più. La narrazione del trionfo cinese è stata molto popolare non solo a Pechino: per ovvi motivi la stampa anti-Trump negli Stati Uniti la cavalca da molto tempo, aveva decretato l’esito del summit ancor prima che questo avvenisse. Si scontra però con un dato: alla fine il dazio medio americano che resterà in vigore sulle importazioni dalla Cina è del 47% cioè un po’ più del triplo del dazio medio che colpisce i prodotti europei, giapponesi, sudcoreani.



















































Può darsi che l’industria cinese abbia dei margini di competitività così enormi da assorbire il colpo, ma sempre di un colpo si tratta. Intanto l’export dalla Cina verso gli Stati Uniti continua a calare, mentre quello italiano… va a gonfie vele! Una buona notizia che riprendo dal Corriere, e che sviluppo più in fondo. (Ogni tanto bisogna gustarsele, le buone notizie).

Tornando alla tregua siglata dai due leader a Busan in Corea del Sud: Trump e Xi hanno firmato un accordo temporaneo, la durata è solo di un anno, ragion di più per limitarsi alla definizione prudente di «tregua». Washington riduce di dieci punti i dazi sui beni cinesi, che dopo il taglio restano in media al 47%; Pechino promette una stretta sul traffico di precursori chimici che sono i componenti del Fentanyl, concede un allentamento temporaneo sui controlli all’export di terre rare e torna a comprare soia americana. È una pace parziale, tattica, utile a entrambi e priva di contenuto strutturale.

La nuova media del 47% fotografa un dazio americano ancora molto alto sugli acquisti dalla Cina, ma inferiore allo scenario peggiore evocato nelle settimane scorse. Xi evita il picco al 100%, incassa prevedibilità per i suoi esportatori e conserva le leve strategiche. Dal punto di vista della comunicazione e propaganda, anche qui Xi ha giocato bene le sue carte: vista la minaccia dei dazi al 100%, ora lui può presentare come un grande successo il dimezzamento di quell’aliquota doganale. Mentre in partenza, rispetto alla situazione di un anno fa, il 47% resta una batosta considerevole.

Sulle terre rare: Pechino ritarda per un anno l’inasprimento delle restrizioni introdotte in autunno, ma non smantella il regime di licenze varato in primavera. La Cina mantiene così la capacità di modulare i flussi verso singole imprese occidentali e di riattivare la stretta se i tavoli si impantanano. È un rinvio, non un disarmo. Questa è un’arma formidabile nelle mani di Xi, senza alcun dubbio, e lui se l’è giocata nel miglior modo possibile. Però è un’arma dall’efficacia decrescente nel tempo, esattamente come lo sono le restrizioni americane sull’export dei microchip più avanzati alla Cina. In questo modo ciascuno incentiva l’altro a rendersi autosufficiente. Ci vorrà del tempo perché l’America costruisca delle filiere alternative di approvvigionamento in terre rare (ma ha cominciato a farlo, e già sotto l’Amministrazione Biden), così come ci vorrà del tempo perché la Cina raggiunga il livello tecnologico di Nvidia e Amd nei microchip. Ma la direzione di marcia è questa: «decoupling», divorzio, progressivo allentamento delle reciproche dipendenze. Oggi le licenze sulle terre rare sono un deterrente incisivo a disposizione di Xi, ogni anno che passa lo saranno un po’ meno.

Anche Washington sospende – senza rinunciarvi per il futuro – alcune restrizioni all’export verso sussidiarie di entità cinesi già in black list: un segnale di de-escalation tecnologica, limitato ma politicamente eloquente. Nello stesso arco di tempo Stati Uniti e Cina congelano i reciproci pedaggi portuali sulle navi mercantili; misura minore, ma coerente con il tentativo di raffreddare i costi logistici.

Il capitolo Fentanyl serve soprattutto per la politica interna americana. La base elettorale di Trump è molto sensibile su questo tema. Pechino promette un giro di vite molto forte sui precursori chimici. Si vedrà se manterrà questa promessa meglio di quanto abbia fatto in passato. Senza arresti, tracciabilità rigorosa e cooperazione giudiziaria, i produttori possono aggirare i divieti variando lievemente le molecole. È un impegno politico, più che operativo. Ma basta a Trump per rivendicare un risultato su un’emergenza reale (ancorché decrescente: è già iniziata la curva fisiologica di calo dei decessi da overdose per Fentanyl).

Sull’agroalimentare il segnale è già arrivato nei porti: la Cina ha ordinato nuovi carichi di soia statunitense nei giorni del vertice. Le quantità non sono «tremende» come proclama la Casa Bianca, però bastano a rassicurare la base agricola repubblicana, colpita in questi anni dalla volatilità degli ordini.

Il contesto resta quello di un decoupling selettivo. Nei primi nove mesi del 2025 le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti sono diminuite del 17 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: è un dato più robusto dei singoli rimbalzi mensili e racconta una relazione commerciale in ritirata, con parte delle catene di fornitura trasferite o sdoppiate in Asean (l’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico) e Messico. La tregua non invertirà questo trend; lo renderà soltanto più gestibile.

Chi guadagna, chi perde. Trump incassa titoli spendibili: rassicurazione dei mercati e di alcune constituency domestiche, cooperazione sul Fentanyl, un anno di attenuazione del rischio strozzature su terre rare e logistica. Xi ottiene tre vantaggi tattici: evita una escalation tariffaria ancora più dura, conserva integra la leva mineraria, compra tempo per consolidare il riassetto delle sue catene produttive. Ai mercati tutto questo piace perché riduce l’incertezza.

Perché a Pechino il 47% non fa paura, pur essendo il triplo del dazio che colpisce Europa, Giappone, Corea del Sud? Primo, la scala industriale consente di assorbire una parte del dazio comprimendo margini e prezzi di listino, sostenuti anche da un cambio favorevole: l’effetto sul prezzo finale americano non è così pesante. Controindicazione: si accentuano le pressioni deflazionistiche all’interno dell’economia cinese, visto che calano ulteriormente i margini di profitto. Secondo, la rilocalizzazione funziona: ciò che non parte dalla Cina continentale parte da stabilimenti cinesi in Messico o nel Sud-Est asiatico, con regimi tariffari diversi; l’impatto sui volumi delle multinazionali cinesi risulta smussato.

Controindicazione: però se la multinazionale cinese produce in Vietnam o in Messico dà lavoro a operai vietnamiti o messicani, non cinesi. Terzo, la domanda statunitense è ancora sensibile al prezzo in settori dove la Cina mantiene vantaggi di costo e di capacità produttive. Quarto, la leva sulle terre rare resta intatta, solo differita. Quinto, sul piano politico interno la leadership può presentare la tregua come prova di resilienza e di pari dignità negoziale: ma sulla capacità della propaganda cinese di cantare vittoria non c’erano dubbi in partenza.

Qualche dettaglio finale. Taiwan non è stato affrontato, smentendo i timori che Trump avrebbe «svenduto» l’isola; Ucraina sì, in termini generici di possibile cooperazione. Trump annuncia un viaggio in Cina ad aprile e una visita di Xi negli Stati Uniti a seguire. È la coreografia della distensione. Sotto, però, resta la gara per la supremazia tecnologica e industriale. La tregua di Busan compra tempo. A entrambi serve questo.

Concludo con la postilla positiva sul made in Italy. Riprendo testualmente da un articolo uscito oggi sul Corriere Economia e intitolato (giustamente) “Il made in Italy più forte dei dazi”. Ecco il primo paragrafo: «Sorpresa nei dati delle vendite all’estero a settembre, cioè dopo l’entrata in vigore dei dazi Usa. In base ai dati diffusi ieri dall’Istat, l’export verso gli Stati Uniti è salito del 34,4% su anno trainato dal boom della nautica e del 12% al netto dei mezzi di navigazione marittima». Niente Armageddon, l’Apocalisse è rinviata anche stavolta. Gli imprenditori italiani hanno continuato a fare il loro mestiere con il talento e la tenacia di sempre, senza farsi stordire da allarmismi e catastrofismi. Il fatto che la Cina sia colpita con dazi tre volte superiori mi sembra la ciliegina sulla torta.

30 ottobre 2025, 15:46 – modifica il 30 ottobre 2025 | 15:46