di
Paolo Valentino
Dal test nell’isola di Bikini fallito nel 1954 agli scambi di minacce di oggi: le prossime mosse di Usa, Russia e Cina
La mattina del 1° marzo 1954, una spaventosa palla di fuoco incendiò il cielo sopra l’atollo di Bikini, nelle Isole Marshall. Denominata in codice Castle Bravo, l’esplosione nel Pacifico fu il primo test americano di una bomba termonucleare all’idrogeno alimentata a idruro di litio, con una potenza stimata mille volte maggiore di quelle sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Gli effetti dell’esperimento furono catastrofici.
A causa di un errore di calcolo la potenza della detonazione fu 3 volte superiore al previsto, generando un fungo atomico che salì fino a 40 chilometri di altezza e si allargò in un diametro di oltre 100 chilometri. Oltre a rendere inabitabili quattro isole dell’atollo, a tutt’oggi deserte e prive di vita, l’ordigno provocò una ricaduta di materiale radioattivo, che il vento spinse fino a 11 mila chilometri di distanza, raggiungendo per primi gli atolli di Rongelap e Utirik e investendo anche un piccolo peschereccio giapponese, il Daigo Fukuryu Maru: i 23 membri dell’equipaggio furono contaminati, il capo telegrafista Kuboyama Aikichi morì sei mesi dopo per sindrome acuta da radiazioni. Ancora una volta, una bomba atomica americana aveva causato vittime giapponesi.
Il caso della «quinta barca del drago fortunato» innescò l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, che reagì contro i test nell’atmosfera. Il presidente Eisenhower era così furioso che promise che gli Usa non avrebbero mai più fatto detonare una bomba così potente, cosa che in effetti avvenne lasciando il primato a Mosca: nel 1961, nell’Artico, l’Urss sperimentò la mostruosa Bomba Zar da 50 megatoni, il più grande ordigno all’idrogeno mai fatto esplodere, oltre 3 mila volte l’energia di quello di Hiroshima.
Ma nel bene e nel male, fu Bikini a entrare nell’immaginario collettivo diventando sinonimo di esplosione: quando Rita Hayworth per la prima volta indossò un costume a due pezzi, «esplosivo» appunto, fu inevitabile chiamarlo bikini. La mobilitazione mondiale in ogni caso produsse un effetto. E nove anni dopo, nel 1963, Stati Uniti, Unione Sovietica e Regno Unito firmarono il LTBT, il Trattato sulla parziale messa al bando degli esperimenti nucleari che proibiva ogni test atomico «nell’atmosfera, nello spazio, sott’acqua o in alto mare».
Fu l’inizio di un capitolo parallelo della Guerra Fredda, che avrebbe portato nel 1974 al TTBT, il Trattato che limita le esplosioni sotterranee a 150 chilotoni. Più ambizioso ma meno fortunato, ne parleremo più avanti, è stato il CTBT (Comprehensive Nuclear Test Ban Treaty) concluso nel 1996 e firmato da 187 nazioni, ma mai entrato in vigore perché Usa, Cina, Iran e Israele non lo hanno ratificato, mentre la Russia ha revocato la sua ratifica. La Corea del Nord, invece, non lo ha mai firmato.
Riapre una pagina che sembrava chiusa per sempre, l’annuncio di Donald Trump sulla possibile ripresa dei test nucleari da parte degli Stati Uniti sia pure con l’ambigua precisazione «on an equal basis», cioè su base uguale agli esperimenti di altri Paesi. Parole che fanno pensare a test di missili e altri sistemi d’arma con potenzialità nucleare, ma senza esplosioni. Non è chiaro cos’abbia spinto il presidente americano all’ennesima impennata, poco prima dell’atteso vertice con il leader cinese Xi Jinping, aprendo un vaso di Pandora che potrebbe scatenare una nuova, pericolosissima ripresa degli esperimenti.
L’ipotesi più probabile è che Trump abbia reagito con stizza e fastidio ai recenti annunci di Vladimir Putin sui test di nuove superarmi, che sarebbero stati effettuati con successo dalla Russia: missili da crociera armati di testate nucleari che possono volare all’infinito e soprattutto il Poseidon, il siluro a propulsione atomica in grado di scatenare tsunami di fronte alle coste americane.
In realtà non è affatto provato che i due sistemi, la cui esistenza era nota, siano già operativi. Il presidente russo ha comunque reagito alle dichiarazioni di Trump, affidate ai social, facendo dire al suo portavoce che Mosca sta monitorando eventuali violazioni della moratoria internazionale sui test nucleari e risponderà qualora si verificassero. «Il presidente americano» ha detto Peskov «ha diritto di prendere decisioni sovrane, ma se qualcuno abbandona la moratoria, la Russia agirà di conseguenza».
Sull’annuncio di Trump pesa probabilmente anche la Cina, che negli ultimi anni ha aumentato a ritmo crescente il suo arsenale atomico. Secondo il Pentagono, di questo passo Pechino potrebbe avere 1.500 testate nucleari entro il 2035, cinque volte il livello attuale. Il Dragone, tuttavia, anche se non lo ha ratificato, ha fin qui rispettato il CTBT, così come hanno fatto gli Usa: l’ultimo test nucleare cinese risale al 1996, mentre gli americani hanno fatto esplodere il loro ultimo ordigno nel deserto del Nuovo Messico nel 1992. In Russia per trovare un test atomico bisogna invece risalire fino al 1990, quando esisteva ancora l’Unione Sovietica.
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È chiaro che, se Trump dovesse dare seguito alle sue parole, anche Mosca e Pechino ne seguirebbero l’esempio. Pechino soprattutto ne ha bisogno per accelerare la miniaturizzazione delle sue bombe che insegue da tempo: con missili più piccoli, si possono puntare con maggior precisione gli obiettivi, riducendo potere, dimensione e costo delle testate, il che allo stesso tempo abbassa di molto la soglia del loro impiego. Pechino vuole anche recuperare l’attuale svantaggio nei confronti degli Usa: attualmente i missili strategici Trident II caricati sui sottomarini americani portano fino a otto testate nucleari, mentre quelli cinesi ne hanno solo tre.
30 ottobre 2025 ( modifica il 30 ottobre 2025 | 18:31)
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