Nel 2015 lo chiamavano «il Drake italiano», il rapper che cantava con l’autotune e faceva solo pezzi d’amore. «Forse un po’ ci giocavo anch’io, su quest’etichetta», confessa. Acqua passata. Oggi lo stile di Mecna – cioè Corrado Grilli, classe 1987, cresciuto a Foggia – non è cambiato, ma nel frattempo lui ha smesso di essere la mosca bianca dell’hip hop nostrano, quello che nel 2015 cantava Non dovrei essere qui, riferito a una scena di soldi e collanoni. «L’introspezione e l’intimismo», dice, «hanno preso più piede». E intanto, s’intende, si sono confermati il suo marchio di fabbrica, quelli di un’artista riservato, antidivo, che non ha mai compiuto il passo più lungo della gamba. Lo testimonia Discordia, armonia e altri stati d’animo, il suo nono album (esce il 24 ottobre), 12 tracce in cui si racconta ancora, tra relazioni, sogni da non mettere nel cassetto e la novità della paternità. Sentire un album di Mecna è come parlare con un amico, o leggere un diario di bordo. «È il mio lavora più personale», dice alla vigilia di un tour che dal 17 al 30 gennaio 2026 lo porterà nei principali club del nostro paese (tra le altre, il 25 a Milano e il 27 a Roma).

La priorità, ad ascoltarlo, sembra una certa difficoltà nell’accettare di crescere, di diventare adulti. La spaventa?
«A me non troppo, me vedo intorno a me tanti amici – per lo più della mia età – che nonostante non siano più giovanissimi faticano a crescere. Per me, farlo significa trovare la propria strada, investire sul proprio talento, al di là degli stereotipi che a trent’anni ci vorrebbero contenti e sistemati. Quello no, però almeno essere decisi. Oggi, però, si va poco in questo senso. Probabilmente perché viviamo in una realtà che ci dice di guadagnare tanto e subito, con il risultato paradossale che spesso ci si accontenta del primo lavoro che passa – una stabilità, una qualsiasi – piuttosto che d’investire sulla propria passione. Che è difficile, non dà certezze ed è poco remunerativo».

Lei quando l’ha fatto?
«Me ne sono andato da Foggia perché, con i sogni che avevo, non c’era spazio, ho studiato grafica a Roma con l’ambizione di ricoprire quel mestiere nell’ambito della musica stessa (tuttora Mecna è un apprezzato art director dei progetti grafici di diversa musica italiana, nda). E poi, certo, volevo fare il rapper. Ma finiti gli studi ero finito a lavorare in ufficio, come grafico, ma senza che tutto ciò riguardasse la musica e soprattutto con poco tempo per dedicarmi alle canzoni. Era il periodo a cavallo del primo album, Disco inverno (2013). Ero in una multinazionale, ma ho rischiato: ho lasciato il posto fisso – i miei genitori non la presero benissimo – per giocarmi le mie carte. È andata bene».

Canta: «Questa retorica italiana degli uomini imprigionati dalle mogli e dalle proprie vite mi ha sempre fatto ridere». Di che parla?
«Della realtà, basta vedere uno dei monologhi comici che girano: lo standard è l’uomo che si lamenta della donna, della famiglia, di ciò che ha. Lo trovo, anche qui, un po’ immaturo: seppure fosse una gabbia, c’è da smettere di lamentarsi e uscirne. Io, di mio, sono per la stabilità e per la lealtà, che è un altro di quei valori che oggi mi sembra si stia un po’ perdendo».