Dopo la caduta di el-Fasher nelle mani delle RSF, sono più di 33mila le persone fuggite dalla capitale del Darfur settentrionale. Dal rapporto Displacement Tracking Matrix dell’OIM, pubblicato nelle ultime ore, emerge che i dati relativi alle uccisioni e agli sfollamenti sono parziali e potrebbero non rispecchiare quanto sta accadendo sul campo

a cura di Mirea D’Alessandro

 

Non accennano a placarsi le violenze delle Forze di Supporto Rapido – guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo – nei confronti della popolazione sudanese del Darfur settentrionale. Il 29 ottobre l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha denunciato l’uccisione di “oltre 460 pazienti e dei loro accompagnatori al Saudi Maternity Hospital”, centro pediatrico che si trova ad un isolato di distanza dalla sede Unicef a nord est di Al-Fashir, caduta sotto il controllo dei paramilitari domenica. L’organizzazione ha fatto sapere che martedì “sono stati rapiti anche sei operatori sanitari, quattro medici, un’infermiera e un farmacista”.

Le violenze di massa sui civili sono visibili sin dallo spazio: l’analisi

Da un’analisi delle immagini satellitari effettuata dall’Humanitarian Research Lab della Yale School of Public Health, risultano oggetti di dimensioni compatibili con corpi umani adagiati sul terreno vicino a veicoli delle RSF in alcune delle zone della città. L’HRL ha individuato “almeno cinque casi di scolorimento rossastro della terra” e questo potrebbe indicare la presenza di fosse comuni. Dalle immagini satellitari, inoltre, sono visibili quello che l’HRL ha identificato come possibili corpi “raggruppati lungo una strada sterrata che corre da nord a sud parallela alla città”. In base al materiale visivo e alle testimonianze dei sopravvissuti, il centro di ricerca statunitense ha quindi concluso che è altamente possibile che si siano verificate uccisioni di massa su larga scala da domenica 26 ottobre. Tra i casi segnalati, infine, uno in particolare ha riguardato al Saudi Maternity Hospital che “è stato utilizzato come centro di detenzione delle RSF e poi come sito designato per uccisioni di massa tra il 27 e il 28 ottobre 2025”. La valutazione che riguarda la portata delle uccisioni, precisa il centro di ricerca, potrebbe essere sottostimata

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L’allarme e le richieste delle ONG

Sul web iniziano a circolare sempre più video e immagini, molte dei quali sono stati verificati da testate giornalistiche e istituti di ricerca – come è il caso di BBC Eye – che mostrano i crimini di guerra commessi dai paramilitari. Diversi video sono stati girati dagli stessi aggressori che hanno filmato le atrocità, rendendo così più semplice la loro identificazione. Negli ultimi due anni, lo schema strategico utilizzato dalle Forze di Supporto Rapido si è consolidato: accerchiare il bersaglio per mesi, privare i civili di acqua, cibo, medicine e internet e attaccare al momento giusto appiccando incendi, massacrando la popolazione, stuprando donne e bambine. Le ONG chiedono alla comunità internazionale di indagare per accertare le responsabilità di quello che si profila essere “un genocidio che sta trascinando nel baratro milioni di persone”. Dai video che sono stati caricati sul web, è evidente che i paramilitari hanno un atteggiamento aggressivo insultando i loro prigionieri, torturandoli e uccidendoli a sangue freddo con armi da fuoco. Gli attacchi mirati, denunciati da gruppi della società civile e confermati, in parte, dal rapporto di HRL, “richiedono un’indagine immediata e la piena responsabilità di coloro che li hanno presumibilmente perpetrati”. 

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L’accusa di genocidio

Per capire la situazione in cui versa oggi il Sudan, è importante fare un piccolo passo indietro. Le Forze di Supporto Rapido nascono, infatti, dalle ceneri dei “Janjaweed”, milizie arabe che all’inizio del secolo hanno ucciso centinaia di migliaia di abitanti non arabi del Darfur. Questo ha spinto molti attivisti e difensori dei diritti umani a lanciare un allarme: “Si sta verificando un genocidio in Darfur, proprio sotto i nostri occhi”. Ad el-Fasher gruppi armati locali della tribù dominante, i Zaghawa hanno combattuto a fianco dell’esercito regolare per contrastare i paramilitari negli ultimi anni. Secondo un’indagine condotta da Medici Senza Frontiere all’inizio dell’anno, sulla base di una serie di testimonianze dei sopravvissuti alle violenze delle RSF nel campo profughi di Zamzam, “i combattenti dell’RSF considerano i civili Zaghawa come obiettivi legittimi”. “Che tu sia un civile, ovunque tu sia, in questo momento non è sicuro, nemmeno a Khartoum”, ha affermato Emi Mahmoud, direttore strategico dell’IDP Humanitarian Network, che aiuta a coordinare la consegna degli aiuti nel Darfur, in un’intervista rilasciata a BBC. Negli anni sia le RSF che le FSA sono state accusate di aver commesso crimini di guerra nei confronti della popolazione. Nel 2003, per esempio, fu lo stesso governo militare del Sudan ad arruolare i Janjaweed per reprimere “le ribellioni dei gruppi di africani neri nel Darfur, che accusavano Khartoum di emarginarli politicamente ed economicamente”.

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Il video pubblicato dal capo delle RSF Mohamed Hamdan Dagalo

Dagalo, generale di vecchia data noto ai più come Hemedti, in risposta alle reazioni internazionali inaspettate e provenienti non solo dalle ONG ma anche dall’ONU, dall’Unione Africana e dall’Unione Europea, ha pubblicato un video in cui, dopo aver espresso il suo rammarico per la situazione che si è verificata ad el-Fasher, ha ammesso che le sue forze hanno compiuto delle “violazioni” e che per questo sarebbe stata avviata un’indagine interna. In passato, il generale aveva dichiarato di voler indagare su altre uccisioni indiscriminate come quelle che si sono verificate ad el-Geneina. Le indagini non sono mai state realizzate. 

Le armi usate dalle RSF e le accuse agli Emirati Arabi Uniti

L’esercito regolare del Sudan, guidato da Abdel Fattah al-Burhan, accusa gli Emirati Arabi Uniti di finanziare e armare le Forze di Supporto Rapido. Nell’ultimo anno le RSF hanno iniziato ad utilizzare droni sgancia ordigni. Lo scorso agosto l’aeronautica sudanese ha distrutto un aereo battente bandiera emiratina mentre atterrava all’aeroporto di Nyala che era in quel momento controllato dalle RSF e che trasportava mercenari colombiani. Abu Dhabi nega le accuse, nonostante l’esistenza di un rapporto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che hanno confermato il sostegno degli Emirati alle RSF già a gennaio del 2024, e mentre continuano a moltiplicarsi indagini giudiziarie e inchieste giornalistiche sulla questione. 

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