La memoria delle cose, dei luoghi, delle persone, del tempo: nella fotografia di Mimmo Jodice c’è un rigore progettuale e un impegno radicale in cui la fantasia trova sempre spazio all’interno della ricerca. Napoli era per lui lo scenario principale, direttamente o indirettamente, per inseguire l’infinito. È qui che era nato nel 1934 (all’anagrafe Domenico Iodice) nel rione Sanità, secondo di quattro figli rimasto giovanissimo orfano del padre.
SI È SPENTO IL 28 OTTOBRE all’età di 91 anni nella casa a Posillipo dove ha vissuto gran parte della sua vita con la moglie Angela, inseparabile compagna e madre dei figli Barbara, Francesco e Sebastiano, prematuramente scomparso nel 2016. Nominato Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere dal Ministero della Cultura Francese nel 2011, era orgoglioso di aver ricevuto anche la Laurea Honoris Causa in Architettura dall’Università Federico II di Napoli e quella dell’Università della Svizzera italiana di Mendrisio: riconoscimenti che ufficializzano la qualità di oltre sessant’anni di ricerca coerente, autoriale.
Era il 1967, infatti, quando espose per la prima volta 48 fotografie alla Libreria La Mandragola, accompagnate da un testo del critico cinematografico Antonio Napolitano. Nella locandina era riportato erroneamente Jodice anziché Iodice: cognome che avrebbe adottato per sé e per l’intera famiglia.
Questo il fotografo lo ricorda anche nelle pagine del volume autobiografico Saldamente sulle nuvole, a cura di Isabella Pedicini (Contrasto, 2023). A ripercorrere l’intreccio di vita personale e professionale anche il documentario di Mario Martone Un ritratto in movimento. Omaggio a Mimmo Jodice (2023) e più recentemente il film Oltre il Confine (2025), diretto da Matteo Parisini. Un dialogo tra Mimmo e Francesco che non è solo quello tra un padre e un figlio, ma tra due straordinari autori che esprimono pensieri che riflettono le loro diverse personalità, accomunate tuttavia dal senso di libertà con cui ciascuno interpreta la fotografia come forma d’arte. Cosa per niente scontata negli anni Sessanta, quando il dibattito era aperto e il linguaggio fotografico indirizzato sostanzialmente al reportage o alla fotografia antropologica, umanistica e etnografica, alla moda, alla pubblicità, al paesaggio, alla ritrattistica, al nudo.
MIMMO JODICE non è mai stato interessato a queste categorie, o meglio era lui che ricercava le possibilità della fotografia. Trascorreva, poi, ore in camera oscura ascoltando la musica mentre s’immergeva nelle sue sperimentazioni tecniche e linguistiche. «Evidentemente non ho mai avuto la bizzarria di andare a fotografare la luna, perché lì non ci potevo andare» – disse durante un’intervista che ho raccolto nel 2010, in occasione dell’antologica Mimmo Jodice a Palazzo delle Esposizioni di Roma – «Mi sono ritagliato percorsi praticabili, non mi sono avventurato nelle spericolatezza. Piuttosto, è stato difficile girare per trovare le immagini che coincidessero con il progetto. Ad esempio Mediterraneo parte da una riflessione che feci mentre mi trovavo a Pompei, vedendo i solchi delle ruote dei carri lasciate sulle pietre della strada; come pure l’usura sulle fontane pubbliche, là dove si erano poggiate le mani. Osservando questi segni di una realtà, di una vita, provai ad immaginare come allora si vestiva la gente, quali erano gli odori, le parole… Un po’ alla volta iniziai un viaggio nel tempo, da Nîmes a Pergamo, Petra, Agrigento, Cuma… immaginando di vivere io stesso nel passato. Nasce, così, l’idea di incontrare le persone in questa dimensione di sogno. Si tratta di immagini in azione, più che di reperti. Finché in Anamnesi (1990), racconto gli stessi sentimenti di oggi: lo spavento, la felicità».
NELLO STUDIO A POSILLIPO dove si trova anche l’archivio, nello stesso edificio dell’appartamento, è affascinante leggere le scritte sul bordo delle scatole che contengono positivi, provini, negativi e diapositive: Napoli, Boston, Mediterraneo, Attesa, Terremoto, Eolie… Quanto alla voce Archeologia ha tantissime varianti, mentre le scatole Transiti contengono anche le stampe di prova e l’impaginato dell’omonimo libro pubblicato da Electa nel 2006, in occasione della mostra al Museo di Capodimonte.
Fotografie che inquadrano volti, specchio di emozioni atemporali, che il fotografo – senza mai tradire il linguaggio del bianco e nero – ha rintracciato nei dipinti di artisti del passato quali Ribera, Artemisia Gentileschi, Luca Giordano.
Ma è soprattutto il mare, così intrinsecamente connesso alle sue radici napoletane, che Mimmo Jodice continua a fotografare negli anni. «Il mare è sempre in una dimensione sospesa. È un mare primitivo e, anche quando c’è un oggetto, è estraniante e surreale. Anche in questo caso non prendo la macchina fotografica e scatto, l’immagine è sempre frutto di una ricerca, di una riflessione.
Sapessi quanti chilometri di spiaggia ho fatto, senza scattare nemmeno una fotografia, oppure per scattarla quando finalmente ho trovato quello che cercavo, magari all’alba! È una riflessione sull’infinito, come spazio e tempo. Questo mare che scopre lo scoglio e lo ricopre, anche ora mentre stiamo parlando, continua la sua azione. I miei sono pensieri costruiti. La dimensione di attesa».