di Valeria Vignale
Il papà, per il figlio 27enne all’esordio da regista, è tornato a recitare: «Una gioia assoluta vedere che ha voglia di stare con me ora che il mio ruolo di padre è ormai assolto». E lui: «Mi diverto sempre in sua compagnia, capire che volevamo raccontare entrambi la storia di due fratelli è stato straordinario»
«Una cosa è certa, avrei dovuto stare zitto» sorride Daniel Day-Lewis parlando dell’annuncio che sconcertò il mondo del cinema, nel 2017, e che ora si rivela la sua nemesi. All’epoca disse attraverso un portavoce che Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson sarebbe stato, per ragioni personali, il suo ultimo film. E dev’essere difficile per il grande attore inglese, uno dei più schivi, dover affrontare di nuovo, inesorabilmente, la curiosità di un pubblico che gli chiede ragione della svolta.
«È stato un errore fare annunci, anche se non ricordo di aver mai pensato al “ritiro” visto l’amore che ho per questo mestiere» spiega lui, vincitore di tre Oscar (per Il mio piede sinistro di Jim Sheridan nel 1990, Il petroliere di Paul Thomas Anderson nel 2008 e Lincoln di Steven Spielberg nel 2013). «Fin da ragazzo ho sempre sentito il bisogno fortissimo e ciclico di staccare per ricaricarmi facendo altro». Ama lavorare il legno e il cuoio, costruire mobili e oggetti, e negli Anni 90 si era pure trasferito per un po’ in Toscana per imparare a fare calzature artigianali.

Il motivo del suo ritorno in scena si chiama Ronan ed è seduto accanto a lui. Ha 27 anni, è il secondo figlio avuto dalla scrittrice e regista Rebecca Miller, e l’ha diretto nella sua opera prima. Anemone di Ronan Day-Lewis, scritto insieme al padre Daniel che ne è felicemente protagonista, esce nelle sale il 6 novembre dopo la presentazione ad Alice nella città, la rassegna dedicata alle nuove generazioni, parallela alla Festa del Cinema di Roma. Il film racconta la storia di Ray, ex soldato dell’esercito britannico che, dopo un evento traumatico, ha abbandonato la compagna incinta (Samantha Morton) e scelto una vita spartana, isolata nella natura. Dopo anni viene rintracciato dal fratello Jem (Sean Bean) che spera di riportarlo a casa a occuparsi del ragazzo ormai cresciuto, e problematico. Tra gli alberi battuti dal vento, e gli anemoni del titolo legati a un ricordo d’infanzia, Ray e Jem si ritrovano a sbrogliare dolorosamente i nodi del loro passato.
È una storia di fratelli, di padri e figli, di generazioni diverse e, dice Ronan, «delle schegge emotive che le attraversano». Diverse da quelle creative del suo albero genealogico. Entrambi i nonni erano letterati (il poeta anglo-irlandese Cecil Day-Lewis, il drammaturgo americano Arthur Miller), la nonna paterna era attrice (Jill Balcon) e l’altra fotografa (Inge Morath). Lo stesso Ronan ha più talenti: è pittore, oltre che sceneggiatore e regista, e i suoi dipinti sono stati in mostra fino all’1 novembre alla Megan Mulrooney Gallery di Los Angeles.

La complicità di padre e figlio è più lampante della somiglianza, mentre chiacchierano e ridono tra loro poco prima dell’intervista. Nell’incontro con il pubblico romano, Daniel Day-Lewis ha detto che nel suo primo giorno di set, a tanti anni dall’ultimo, ha pensato «Fuck, rieccoci ancora qui». Non riguarda i suoi film ma stavolta non ha escluso di girarne altri. Giubbotto sportivo, un piccolo foulard colorato al collo tra i vari ciondoli, Daniel Day-Lewis ha qualcosa di freak che ricorda il look degli esordi e il discorso davanti alla platea hollywoodiana dell’Oscar per Lincoln, quando ringraziò fra gli altri proprio Rebecca Miller: «Da quando ci siamo sposati ha vissuto con uomini molto strani ma fortunatamente lei è quella versatile della famiglia ed è stata la compagna perfetta per tutti». Oltre a Ronan la coppia ha avuto Cashel, oggi 23enne, e della famiglia allargata fa parte anche Gabriel, nato 30 anni fa dalla relazione di lui con l’attrice francese Isabelle Adjani.
È grazie a Ronan, e alla vostra idea comune, se Daniel è tornato sul grande schermo?
Daniel: «La spinta è venuta dal desiderio di lavorare con mio figlio, in effetti. Sapendo che avrebbe girato un film da regista, mi rattristava pensare di non recitare più e non poterlo fare con lui. Quando abbiamo iniziato a inventarci qualcosa però, per il puro gusto di farlo, non sapevamo cosa ne sarebbe venuto fuori».
Ronan: «È stato lui a propormi di scrivere insieme, sette o otto anni fa, quando ero ancora all’università (ha studiato Lettere a Yale; ndr). Poi ho scoperto che avevamo in mente lo stesso tema: il rapporto tra fratelli, un archetipo. All’inizio era solo qualcosa di giocoso ma con le prime pagine ha preso forma la figura di Ray, l’idea di un’onta che l’ha portato a vivere isolato in un capanno nei boschi».
Daniel: «Vedere mio figlio trasformarsi in regista davanti a me è stato emozionante. Mi piace sia aperto ai contributi degli altri»
Com’è stato passare questo tempo a scrivere insieme?
Daniel: «Per me una gioia assoluta. Quando i figli hanno finito l’università, il lavoro di un genitore è praticamente fatto. Sai che potrai essere più o meno utile in futuro ma, se hai fortuna, il rapporto evolve in modo diverso. È un regalo tutt’altro che scontato scoprire che sono ancora felici di stare con te, facendo qualsiasi cosa».
Ronan: «È vero, mi sarei divertito anche a scrivere un breve racconto piuttosto che a fare un puzzle».
Daniel: «Del resto abbiamo sempre creato cose, in famiglia, fin da quando i bambini erano piccoli, e il film è la continuazione di quest’abitudine. Avrebbe potuto essere altro e restare tra le mura domestiche ma l’abbiamo lasciato crescere. Di quello che nasce dalla creatività non hai sempre il controllo».
Come siete arrivati alla decisione di girare un film e vedere il ritorno in scena di Daniel?
Daniel: «Quando la storia si è ampliata. All’inizio abbiamo esplorato l’incontro dei due fratelli, Ray e Jem, poi ci è sembrato necessario vedere le altre figure della loro vita: la donna che Ray aveva lasciato incinta, il figlio cresciuto da lei insieme a Jem. A quel punto abbiamo iniziato a pensare a una produzione vera. Ero un po’ teso, non ero sicuro di essere pronto a rientrare in pubblico».
Ronan: «Ho sempre visto mio padre nel ruolo di Ray, dal momento in cui l’ho immaginato di spalle tra gli alberi, un mistero vivente. Ho scoperto solo di recente che era indeciso tra i due personaggi».
Ronan: «Scrivere a quattro mani ci ha molto avvicinati ma guardarlo recitare è stata una sorpresa: eppure ho visto tutti i suoi film!»
Anemone affronta tematiche forti, dagli abusi sessuali subiti nell’infanzia ai crimini di guerra: vi siete ispirati a fatti e persone reali?
Daniel: «Abbiamo scelto come protagonisti due ex soldati perché il servizio e la scelta militare hanno segnato molte famiglie durante il conflitto nord-irlandese, tra gli Anni 60 e la fine degli Anni 90 del secolo scorso. Jem è ispirato a un mio vecchio amico che aveva fatto carriera nell’esercito britannico ed è un cattolico, profondamente religioso. In Ray, che è invece nato dalla fantasia, abbiamo immaginato una doppia vergogna: quella di essere considerato un criminale di guerra e quella di aver lasciato dietro di sé un figlio senza essersene mai occupato. Sono nato a Londra ma ho vissuto a Belfast in quegli anni, ricordo il clima e ho conosciuto persone da entrambe le parti del conflitto. E come mio padre, pur condannando la violenza, sono un nazionalista irlandese».
Ronan: «Esendo cresciuto in Irlanda, mi viene naturale interessarmi a quel periodo storico. Penso di aver voluto realizzare un film sulle conseguenze del conflitto non solo nella collettività ma nelle vite personali, anche se in Anemone non ci sono scene di violenza e ferite neppure nei flashback. E girandolo mi sono poi reso conto di quanto richiami quello che succede oggi in molte parti del mondo».
La natura è quasi un personaggio del film. È legata alla sensibilità pittorica di Ronan o ha anche un valore simbolico?
Ronan: «La scelta delle immagini per me è intuitiva, sia da pittore che da regista. E in questo caso la natura amplia la prospettiva ed evoca l’indifferenza del cosmo alle sofferenze umane».
Daniel: «Abbiamo girato ad Anglesey, un’isola vicina alla regione montagnosa di Snowdonia e affacciata sul mare d’Irlanda. Certe notti il vento era così potente da far sbattere porte e finestre, non si riusciva a dormire. Ha dato la giusta atmosfera e rende bene il percorso di Ray, che nell’isolamento, nonostante l’educazione cattolica, acquista una visione pagana del mondo. Anche per me la spiritualità è connessa agli elementi della natura».
Cosa avete scoperto uno dell’altro, sul set?
Ronan: «Già scrivere a quattro mani è stato un lavoro intimo, che ci ha molto avvicinato. Ma vedere mio padre interpretare Ray è stata una sorpresa. Ho visto tutti i suoi film ma non immaginavo come sarebbe andata sul set. Non eravamo tutti raccolti intorno a lui, a guardarlo mentre si immergeva in quel mondo. Al contrario, ci si calava in modo da coinvolgere gli altri e rendere più facile per tutti il salto nell’immaginazione».
Daniel: «Vedere Ronan trasformarsi in regista davanti a me è stato emozionante. Conosco la sua sensibilità ma so che fare il pittore è un lavoro solitario mentre sul set ci sono altre persone. Alcuni registi preferiscono controllare il lavoro a modo loro: sono stato felice di vederlo, invece, aperto al contributo degli altri. Ha lasciato a tutti la possibilità di esprimersi».
La vostra è una famiglia artistica. Daniel è figlio di un poeta e di un’attrice. Ronan di un attore e una sceneggiatrice-regista. E voi siete entrambi poliedrici. In che modo le radici hanno influenzato la vostra scelta?
Daniel: «Mio padre era un mistero per me ed è scomparso che avevo solo 14 anni. Quando lavorava a casa dovevamo camminare in punta di piedi per non disturbarlo e mettersi nei guai era l’unico modo per avere un confronto con lui. Detto questo, sono grato ai miei genitori per avermi cresciuto nell’amore per la letteratura e in una casa piena di libri, anche se da ragazzo mi interessava molto di più scappare in strada. Dev’essere stato anche questo a spingermi verso il teatro. Mi dava piacere anche creare cose con le mani ma, in collegio, un insegnante di ebanisteria mi disse che non avevo il temperamento giusto. Aveva ragione, ero troppo irrequieto. Oggi forse sarei più adatto: bisogna essere in pace con sé stessi, per quel tipo di attività. Io avevo la mente in tempesta».
Ronan: «A 5 anni sono andato per la prima volta sul set di La storia di Jack & Rose (ne era regista la madre e attore il padre; ndr) e vedere intorno a me l’entusiasmo con il quale tutti davano vita a quella storia mi ha sicuramente contagiato. Anche se ero troppo piccolo per farmi un’idea esatta di quello che comportava. A 6 o 7 anni, quando andavamo a trovarlo, sapevo che il nonno (Arthur Miller; ndr) scriveva in un piccolo studio della casa, dove erano appesi anche i quadri di mia madre, che dipingeva prima di diventare regista. Tutte cose che mi hanno trasmesso una certa energia, tant’è che già da bambino ho iniziato a disegnare e da adolescente cercavo di convincere i miei amici a girare cortometraggi in giardino. Finché tutto è diventato più serio. Avere una famiglia creativa è un vantaggio e un privilegio. Oggi sono ammirato da chi riesce a emergere senza aver avuto stimoli e incoraggiamenti di questo genere».
La timidezza è un vostro tratto comune? E lei, Ronan, da figlio d’arte ha avuto timore nel presentare al mondo i suoi lavori?
Ronan: «Assolutamente, e mi terrorizza soprattutto da regista. Dipingere mi fa sentire meno esposto, anche se alle mostre devo trovare le parole per spiegare un processo più che altro intuitivo».
Daniel: «Il lavoro di attore è difficile perché puoi essere giudicato duramente per qualcosa in cui hai messo l’anima. Invece se crei qualcosa con le mani, un mobile o un oggetto, è più facile che se ne riconosca la qualità. Nel cinema lavori con le ombre e le emozioni sono talmente soggettive… Per questo io e Ronan abbiamo la sensazione, in questi giorni, di andare in giro senza pelle».
Presentare insieme questo film aiuta ad affrontare il pubblico?
Daniel: «Assolutamente sì, c’è una differenza enorme».
Ronan: «È bello, anche trovarsi a spiegare e ricostruire passaggi che da soli forse non ricorderemmo».
Vivere in un borgo irlandese, immersi nella natura, è stato formativo anche per la vita artistica?
Daniel: «Io e mia moglie ci siamo siamo trasferiti nell’area delle Wicklow Mountains 35 anni fa. Ci siamo sforzati al massimo per proteggere i figli dagli eccessi di attenzione pubblica, sperando che avessero la la libertà di crescere naturalmente, scoprire sé stessi badando il meno possibile al trambusto intorno. Questo non significa che non l’abbiano in qualche modo subìto: dovevano comunque andare a scuola, sentivano comunque le chiacchiere della gente. Non è stato facile».
Ronan: «No anzi, è stata una gran rottura di scatole».
Daniel: «Oggi quei luoghi sono un santuario per me. Un paesaggio che mi rigenera con le sue luci, che è un vero nutrimento».
E tra le cose sacre ci sono i figli, vero capolavoro della vita… più di un Oscar, forse?
Daniel: «Certo, su questo non ho dubbi».
CHI SONO
Il padre
Nato a Londra il 29 aprile 1957, Daniel Day-Lewis ha 68 anni. Ha debuttato 14enne nel 1971 in Domenica maledetta domenica, con una parte di piccolo vandalo. Il film era diretto da un maestro del cinema britannico, John Schlesinger. Nel 1982 lo si è visto in Gandhi di Richard Attenborough, mentre il debutto da protagonista è avvenuto con My Beautiful Laundrette (1985) di Stephen Frears. Tra i suoi film più importanti anche Nel nome del padre (1993) di Jim Sheridan e i tre con cui si aggiudicato gli Oscar al miglior attore (foto in alto da sinistra): Il mio piede sinistro (1989) sempre di Jim Sheridan; Il petroliere (2007) di Paul Thomas Anderson e Lincoln (2012) di Steven Spielberg.
Il figlio
Ronan Day-Lewis è nato il 14 giugno 1998 ed è il primo dei due figli che Daniel Day-Lewis ha avuto con la collega e ora regista Rebecca Miller. Temperamento artistico fin da ragazzino, ha cominciato ad esprimersi come pittore e poi conteporaneamente ha affrontato il mondo della regia di film. Anemone, nelle sale italiane dal prossimo 6 novembre, è il suo debutto in un lungometraggio. Ha scritto la sceneggiatura con il padre, protagonista del film. Prima ha realizzato, a 20 anni, il corto The Sheep and the Wolf, ambientato nell’Irlanda rurale e il video musicale
Snow and Sun nel 2019.
31 ottobre 2025 ( modifica il 31 ottobre 2025 | 16:03)
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