Quando è stato che la gente è diventata interessante per i fotografi? Con il neorealismo, certamente. Lì non era più il “popolo” a catturare gli obiettivi fotografici e cinematografici: ora si raccontavano “quelli come noi”. Il punto di vista era mutato. Così quando Paolo Di Paolo, proveniente da Larino in Molise, arrivò nel 1949 a Roma con un biglietto di terza classe, fuggendo dalla provincia del Centro-Sud e dalla propria famiglia, il cambio di passo era già avvenuto. Era il momento in cui lo sguardo andava alla gente per la strada, il grande palcoscenico italiano: bambini, donne, suore, preti, lettori di giornali, ragazzi e ragazze, ricchi e poveri, tutta la folla che nel ventennio fascista era rimasta inclusa nella categoria “popolo”, che non faceva distinzione di classe o di ceto, e indicava un’appartenenza ideologica. Finita la guerra si ricominciava a vivere, ciascuno come voleva e poteva, così che, dopo l’iscrizione a filosofia, Di Paolo s’innamorò davanti alle vetrine dell’Ottica Cardone di una Leica III C e cominciò a fotografare. Fotografare per diletto divenne ben presto il mestiere di questo ragazzo che sapeva essere simpatico e accattivante, e possedeva un occhio veloce, amava la bellezza e capiva al volo proprio le persone, la loro potenzialità visiva e umana, senza mai perdere quell’ironia che i veri provinciali sfoderano come un dono naturale. Non si riesce a cogliere la magia che possiede la sua fotografia, riscoperta tardivamente per caso e per fortuna nel 2018 abbandonata in un archivio chiuso in cantina, se non la si inserisce nell’epoca in cui ha operato: l’uomo giusto al momento giusto, tanto per confermare che in fotografia l’attimo favorevole è strettamente connesso a quello che si è, e insieme a quando e dove ci si trova.

Paolo Di Paolo: Mastroianni nella mensa di Cinecittà (1955)
1949-1966 sono i diciassette anni in cui accade tutto quello che doveva accadere, dal miracolo economico al cambio di civiltà, dopo almeno due secoli in cui gli orologi, nonostante tutto il trambusto che era avvenuto, sembravano fermi da millenni per l’Italia. E accade che la gente arriva al centro della scena. Come seppe vedere in seguito e in modo straordinario uno dei personaggi visivi di Paolo Di Paolo, Pier Paolo Pasolini, era la premessa dell’individuo contemporaneo, con annesso sviluppo senza progresso: il popolo era morto e c’era la gente.
La meraviglia che ora la mostra al Palazzo Ducale di Genova, Paolo Di Paolo (a cura di Giovanna Calvenzi e Silvia Di Paolo, fino al 6 aprile 2026, catalogo Marsilio Arte) ci offre a piene mani nel centenario della nascita è proprio quel ritratto degli italiani che stanno per transitare dal neorealismo alla società dei consumi, un interstizio del già-e-non-ancora che rende favolosa l’atmosfera delle foto di questo signore, che nel 1966 getterà alle ortiche la sua macchina fotografica per andare a vivere in campagna e lavorare al Calendario dell’Arma dei Carabinieri, scomparendo così dalla scena fino a quel fatidico anno 2018. C’è un detto londinese che può essere riformulato così: chi non ama Roma, non ama la vita.

Paolo Di Paolo: inaugurazione dell’autostrada del Sole (1964)
Di Paolo ha amato tanto da immigrato molisano Roma da cercare di fotografare la medesima vita in ogni parte del mondo dove è stato, dall’Europa all’Asia, regalandoci fotografie ricche di umanità, passione e semplicità insieme. Di cosa è fatta questa semplicità? Questo è il suo segreto e la sua unicità: di niente. O meglio, di un colpo d’occhio fenomenale, che si sposa con due modi diversi di guardare dentro l’obiettivo: la capacità di afferrare il momento perfetto per scattare, come si vede nella celebre foto di Pasolini al Monte dei Cocci, e l’attenzione alle persone immerse nel gran teatro del mondo. È teatrale come lo sono, seppur in modo diverso, due registi Fellini e Antonioni, ma sempre preferendo la “dolce vita” del primo al dramma dell’incomunicabilità del secondo. Di Paolo coglie il lato comico della vita insieme a quello drammatico, senza mai virare verso il tragico. Un fotografo della Commedia, per dirla con la nostra opera nazionale. Tra le tante e bellissime fotografie che raccontano la duplicità di Paolo Di Paolo, la più evidente raffigura il nastro d’asfalto all’inaugurazione della Autostrada del Sole 1964 visto dall’alto. In primo piano c’è però un carretto agricolo e una sfilza di zucche. Il taglio della foto è perfetto, e anche il suo simbolismo: il futuro e il passato. È la più esatta definizione della nostra Italia, dove il futuro ha sempre dentro di sé il passato, come se non riuscissimo a evolvere, gravati da quello che siamo stati nel remoto.

Paolo Di Paolo: Ungaretti a casa (1956)
Di Paolo da provinciale sa coniugare quell’ironia con la complicità, senza mai perdere quel tanto d’eccentricità che, arrivando a Roma, è riuscito a costruire di sé e per sé, e che diventa una chiave per leggere il mondo intorno. Riesce a superare l’imprinting neorealista mediante il suo amore per la mondanità, che è curiosità senza indiscrezione, ovvero tatto e leggerezza. Anche i divi che fotografa – da Sofia Loren a Monica Vitti, da Mastroianni a Simon Signoret – o che compone a coppie inattese, come documenta il bel volume uscito da Electaphoto (Incontri impossibili, a cura della figlia, Silvia Di Paolo), sono sempre la gente. Li guarda con ammirazione e con una intoccabile propensione per la normalità del vivere, che conosce bene: li apprezza, alcuni con più affetto altri con qualche distanza; li coglie nella loro intimità, sempre teatrale però.
Di Paolo è stato il fotografo che ha più collaborato con Il Mondo, il settimanale di Pannunzio, fucina del giornalismo. Sono state ben 573 le immagini, ci ricordò con giusto puntiglio l’autore. Perché piacevano così tanto al direttore di questa testata? Perché erano belle senza essere artistiche, perché erano efficaci nel descrivere uomini e donne che tutti guardavano, perché erano a loro modo un pezzo scritto, qualcosa che somigliava a un articolo di giornale. Eppure, come ci hanno spiegato bene i filosofi della fotografia, il tempo è un grande scultore e ora queste istantanee esposte a Genova, scelte con occhio postumo da Giovanna Calvenzi e Silvia Di Paolo, ci raccontano un momento felice della nostra storia, un periodo che non appartiene né alla corda patetica né all’eroica. Piuttosto a un quid misterioso fatto di spontaneità, naturalezza, vivacità, gioia di vivere e spensieratezza che tutti gli altri in Europa e nel mondo ci invidiavano, anche se noi, da autentici autolesionisti, spesso ci vergognavamo e a cui Paolo Di Paolo ha conferito invece in modo definitivo una luce solare e l’allegria del ben vivere, che oggi purtroppo ci sembrano mancare.
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