di
Davide Stoppini
Paulo Roberto Falcao fra passato e presente: «Con la Var avrei vinto uno scudetto in più, ancora oggi il gol di Turone è scandaloso. Pelé era di un’altra categoria rispetto a Maradona»
«Pronto, è il Divino?». «Eccomi, ci sono». E no, non è un dialogo soprannaturale, perché a Roma i soprannomi hanno sempre saputo sceglierli bene. Ancor di più con Paulo Roberto Falcao, 72 anni compiuti 16 giorni fa, uno che rientra in quella ristrettissima categoria di giocatori che hanno cambiato la storia di un club. «Lo sa che mi dicevano? Che pure il Colosseo si emozionava nel vedermi giocare. Io invece dico che quel soprannome, Divino, è stata una meravigliosa esagerazione, che fa combattere ancora oggi la vanità e l’intelligenza che sono in me. È una battaglia costante: la vanità se lo gode e sorride, l’Intelligenza dice “Calma, Paulo, calma”».
Calma pure con la Roma prima in classifica, allora.
«Calma sì, ma pure consapevolezza: la squadra fa risultato ormai da un anno intero. E ha un grande allenatore in panchina. Con Gasperini la Roma è in ottime mani: non combini quel che ha combinato lui con l’Atalanta, e così a lungo, se non hai un valore riconosciuto».
È da scudetto?
«Roma, Napoli, Inter e Milan: il campionato non esce da queste quattro. Vedo la Juventus più indietro, non solo in termini di classifica. Il Milan invece è molto pericoloso, la partita di San Siro sarà una grande sfida: Allegri sta facendo un ottimo lavoro, avevo pochi dubbi al riguardo, lui è uno che sa stare nelle grandi squadre».
Cosa è successo alla serie A, rispetto ai suoi tempi?
«Io la seguo sempre… ma non ha lo stesso appeal di una volta, i migliori non sono più in Italia. Per due motivi: il primo è economico, la distanza con la capacità finanziaria di un top club in Spagna e soprattutto in Inghilterra è enorme. E la seconda è forse legata alle capacità. Si può sopperire con le idee. Ha visto l’Inter? È stata brava ad andare in finale di Champions due volte negli ultimi tre anni. Certo, alla lunga è dura. La Champions oggi mi sembra come il campionato qui in Brasile: Flamengo e Palmeiras fanno un’altra partita rispetto alle altre».
Facciamo un giochino, di quelli un po’ banali: trova analogie tra questa Roma e la sua?
«Questa Roma sorprende. La mia era invece costruita per stupire, uno stupore studiato per riuscire a fare una cosa diversa rispetto al calcio che in Italia si era abituati a vedere. Liedholm portò la zona. E prese me perché aveva già in testa tutto. In Brasile marcavamo già lo spazio, lui mi volle a Roma per questo. Abbiamo cambiato il calcio. Poi, dopo Nils, in serie A arrivò Sacchi a dare un’altra spinta, aggiungendo il pressing alla zona».
Quale fu la prima cosa che le disse Liedholm appena arrivato a Roma?
«Ve lo immaginate il Barone parlare con l’interprete? (ride, ndr). Tra noi funzionò per un motivo: lui in me vedeva se stesso in campo. Ero quello che lui era stato da giocatore, il riferimento per i compagni. Non ho mai conosciuto in vita mia una persona come lui in grado di essere intelligente e vivace. Fateci caso: di solito chi è vivace, poi poche volte accompagna con l’intelligenza. Lui sì. Lo amavo, di un amore vero».
Perché finì male la sua storia con la Roma? Colpa dell’Inter o del ginocchio?
«Mi faccia chiarire una volta per tutte: io non ho mai firmato niente con l’Inter, questa è una favola. Mai avuto in mano quel contratto. È vero che l’Inter parlò con Colombo (il suo avvocato, ndr). Mi volevano. Ma proprio a Colombo dissi: non giocherò per nessun altro in Italia».
Allora fu per il ginocchio.
«L’addio non fu una mia scelta. E sarei potuto tornare, da allenatore. Era tutto fatto. Gennaio 1991, Dino Viola era a Cortina d’Ampezzo e convocò il mio commercialista Mario. Tutto ok, contratto di due anni. Avrei preso l’aereo per andare a firmare, ma proprio in quei giorni Viola morì».
E il timone passò alla moglie Flora.
«Mi chiamava figlio, faceva ingelosire Ettore e Riccardo».
Siamo in tema di verità: il rigore non tirato contro il Liverpool in finale di Coppa Campioni.
«La ricorda la finale di Coppa Italia col Torino del 1981? Vincemmo col Torino ai rigori, io tirai il quinto. Avevo il 5 sulla maglia, Liedholm era scaramantico… ma col Liverpool comunque il quinto l’avrebbe tirato Chierico. Io non potevo. Camminavo in campo, ero morto».
È il suo più grande rimpianto?
«Non è il rigore. È non averla giocata, quella partita. Scesi in campo con una puntura. L’effetto finì dopo i tempi regolamentari».
Nela ha detto che non la perdona, però.
«Non ho nulla da dire sulle sue parole».
Le piace la Var?
«Beh, avrei vinto almeno uno scudetto in più se ci fosse stato ai miei tempi. Il gol annullato a Turone è scandaloso ancora oggi».
Il suo gol più bello.
«A Pisa. E in tv, con l’intervista a Minoli, dopo Roma-Juve».
Che effetto le fa, Ancelotti ct del Brasile?
«Ogni tanto parliamo e scherziamo. Qui ha un seguito incredibile, la gente è con lui. Può vincere il Mondiale».
Dica un centrocampista che l’ha convinta davvero, in tutti questi anni.
«Toni Kroos. E oggi dico Rodri e De Bruyne. Ma come Falcao-Ancelotti-Cerezo non ce ne sono mai più stati, mi spiace per Xavi-Iniesta-Busquets».
Metta in fila Pelé, Maradona e Messi.
«Non c’è neppure da discutere. C’è Pelé. E poi ci sono gli altri. Maradona è con Messi, Cruyff, Garrincha, Cristiano Ronaldo, Zico. È con loro. Pelé è da un’altra parte».
1 novembre 2025 ( modifica il 1 novembre 2025 | 07:20)
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