Questo testo è stato pubblicato sulla newsletter Global, di Federico Rampini: per riceverla basta iscriversi qui.
Com’è cambiato Bill Gates! Forse per questo non fa più notizia? I media hanno dato poca visibilità alle sue ultime uscite, le più clamorose. Ha cominciato a dire cose che irritano, scandalizzano, sconvolgono i suoi fan o coloro che ricevono i suoi finanziamenti. Condanna l’ambientalismo apocalittico, dice che i poveri hanno bisogno anzitutto di crescita economica. Nega che il pianeta sia in pericolo, dice che dobbiamo investire per adattarci a vivere in un clima che cambia.    
Eppure, sia chiaro, Gates non è diventato trumpiano, neanche un po’. Non appartiene alla schiera di capitalisti che per opportunismo o per interesse si sono allineati alla Casa Bianca. No, lui rimane un critico severo dell’attuale presidente. Proprio per questo, oltre che per la sua autorevolezza accumulata in tanti campi – prima tecnologico-imprenditoriale, poi filantropico-umanitario – merita la massima attenzione questo «nuovo Gates».
E anche quel che fa la sua Microsoft (benché lui abbia lasciato da molti anni ogni incarico operativo, ne rimane azionista e consigliere), riducendo molto la sua presenza in Cina. Anche in questo caso non c’entra Trump, è un segnale del mondo che cambia.
Per chi è più giovane, o semplicemente non ricorda, voglio riassumere le ragioni dell’importanza di Gates. Lui è stato un protagonista straordinario della prima rivoluzione informatica e digitale. Il suo mito è stato mondiale, prima di tutto come figura simbolica di uno spirito imprenditoriale che tanti invidiavano all’America. All’inizio del millennio ricordo di aver verificato personalmente l’ammirazione verso Gates incontrando miriadi di giovani cinesi, vietnamiti, indiani, in paesi che uscivano dal comunismo o dallo statalismo socialista, sognavano il capitalismo, cercavano dei modelli umani a cui ispirarsi. Per esempio, Gates ispirò un giovanissimo Jack Ma, fondatore di Alibaba in Cina.
Aveva 21 anni quando creò Microsoft, perciò ha aperto la strada a un’epoca segnata non solo da una velocità d’innovazione tecnologica travolgente, ma anche dal principio «il potere ai giovani»: questo rimane un tratto distintivo della Silicon Valley californiana e della West Coast in generale, una delle ragioni per cui dal mondo intero tanti giovani talenti continuano a immigrarvi: lì i giovani comandano.
Dopo di lui sono venuti i vari Steve Jobs, Larry Page, Mark Zuckerberg (tutti giovanissimi quando crearono le rispettive aziende), anche se poi molti di loro ne hanno preso le distanze, lo hanno ripudiato, o addirittura avversato. Gates col passare dei decenni è «passato di moda», nel senso che per i giovani creativi della West Coast oggi lui sembra appartenere al Pleistocene. Non è «cool» come i fondatori di ChatGPT. Però, guarda caso, chi è il maggiore azionista di OpenAI, l’azienda di ChatGPT? È Microsoft.
Inoltre per molti aspetti Gates nella sua seconda vita personifica una sorta di «ravvedimento operoso». Si è schierato con Obama per un aumento delle tasse sui ricchi, mentre altri miliardari dell’economia digitale eludono le imposte parcheggiando profitti in Irlanda o simili paradisi fiscali. Avendo accumulato uno dei più vasti patrimoni del mondo, per lui è diventato importante usarlo a fin di bene. E non per lasciarlo ai suoi figli. Non solo è diventato il massimo filantropo della storia, ma l’efficienza con cui gestisce gli aiuti fa sì che altri miliardari si rivolgono a lui, e perfino dei governi scandinavi gli chiedono il know how per spendere al meglio i fondi umanitari.
Microsoft fu il primo «grande cattivo» che ricordo nella New Economy, quando all’inizio del millennio aprii il primo ed unico ufficio di corrispondenza di un giornale italiano a San Francisco per vedere in prima fila e raccontare dal vivo la rivoluzione di Internet. Il quartier generale di Microsoft è più a nord di San Francisco, alla periferia di Seattle nello Stato di Washington, ma pur sempre sulla West Coast.
Anche Gates come molti imprenditori-innovatori digitali era figlio di una cultura anti-establishment. Da ragazzo si era fatto da solo, aveva abbandonato gli studi universitari, si era inventato una vera rivoluzione. All’epoca in cui lui debuttava, il potere costituito nell’informatica si chiamava Ibm. Un nome che per intere generazioni era stato simbolo della tecnologia americana più avanzata. Tant’è che nel suo capolavoro di fantascienza, «2001 Odissea nello spazio», Stanley Kubrick battezza Hal (scegliendo le tre lettere dell’alfabeto che precedono Ibm) il supercomputer che si ribella all’uomo e tenta un golpe sull’astronave. Ibm aveva dominato nell’epoca dei grandi computer, macchine grosse, complesse, costosissime, riservate all’uso delle aziende. Gates capì che il computer invece poteva diventare un elettrodomestico di massa, alla portata di tutti. Una rivoluzione democratica, in un certo senso: portando un «personal computer» (pc) in tutte le case e su tutte le scrivanie, Gates diede un contributo decisivo alla diffusione dell’informazione. Era il passaggio preliminare, preparatorio, verso Internet. Al tempo stesso Gates aveva capito che una volta trasformato il computer in un apparecchio di massa, il vero valore diventava il software, i programmi per farlo funzionare, l’anima della macchina. Non contava produrre le macchine – e infatti ben presto la loro fabbricazione si sarebbe trasferita in Asia – ma mettere a punto i programmi, l’intelligenza artificiale che ne costituiva l’architettura, il cervello e il sistema nervoso.
Ma Gates una volta spodestata l’Ibm divenne a sua volta uno spietato monopolista. Prova ne fu l’azione antitrust avviata contro di lui da Mario Monti quando era il commissario europeo alla concorrenza. La Microsoft voleva escludere dagli schermi dei computer i software concorrenti, soprattutto i «browser» o navigatori per accedere a Internet. Contro di lui l’anima libertaria della Silicon Valley si riconosceva in Linux, software aperto e gratuito.
Oggi si potrebbe dire che Gates «l’anziano» (mio coetaneo, mentre scrivo non abbiamo ancora raggiunto i settanta…) si è trasformato nel più grande «pentito» del Web? In realtà non ha ripudiato il suo passato. Anche come imprenditore lui si è rivelato lungimirante, flessibile, lucido, molti decenni dopo la sua fase giovanile e innovativa. La prova: ha consegnato il potere esecutivo di Microsoft a manager eccellenti, da ultimo l’indiano-americano Satya Nadella. Microsoft ha cambiato più volte vocazione, riuscendo a rimanere sempre nel club esclusivo delle tre o quattro BigTech più quotate del mondo, oggi è in prima posizione nella corsa all’intelligenza artificiale.
Da anni però Gates si dedica prevalentemente alla fondazione filantropica che ha creato insieme alla sua ex moglie Melissa (di recente ha definito il divorzio da Melissa «l’errore che più rimpiango nella mia vita», evidentemente è in fase di ripensamenti autocritici a 360 gradi). Oggi la massa di capitali che lui muove a scopi umanitari è così imponente, che qualcuno spera possa compensare i tagli drastici imposti da Trump all’agenzia USAID. Con Trump ha un rapporto inesistente, non lo stima e non lo ha mai appoggiato. A tutti gli effetti Gates è sempre stato considerato un baluardo dell’America progressista, democratica e ambientalista; oggi rimane in quel campo. Proprio per questo va ascoltato quando vede e corregge gli errori del «suo campo».
Per la sua storia, per la sua impronta decisiva nell’economia, nella tecnologia, nell’ambientalismo, nell’impegno umanitario, il ripensamento attuale di Gates andrebbe studiato parola per parola, non nascosto.
Ora lui afferma che la «visione apocalittica» sul clima è sbagliata e che «sta distogliendo risorse dalle azioni più efficaci che dovremmo intraprendere per migliorare la vita in un mondo che si sta riscaldando». Nella sua attività di sensibilizzazione, Gates è stato per anni uno dei principali sostenitori dell’idea che il riscaldamento globale rappresenti una crisi esistenziale che richiede un’azione politica urgente.
Il suo libro del 2021 porta un titolo eloquente: How to Avoid a Climate Disaster («Come evitare un disastro climatico»). «Senza innovazione», scriveva allora, «non possiamo mantenere la Terra abitabile». E aggiungeva che gli effetti sull’umanità «saranno con ogni probabilità catastrofici».
Ora, alla vigilia del vertice climatico COP30 in Brasile, Gates offre consigli diversi. Un saggio pubblicato sul suo sito promette di rivelare «tre dure verità sul clima», la prima delle quali è che l’aumento delle temperature «è un problema serio», ma «non sarà la fine della civiltà».
Oggi Gates suona come Bjorn Lomborg, il quale sostiene da anni che, pur essendo il riscaldamento globale una realtà, le popolazioni povere del mondo devono affrontare sfide molto più urgenti. Anche per Gates il modo migliore per affrontare l’aumento delle temperature è attraverso l’innovazione, l’adattamento e politiche che continuino a diffondere crescita economica e prosperità.
Ecco il nuovo Gates: «Sebbene il cambiamento climatico danneggi i poveri più di chiunque altro, per la grande maggioranza di loro non sarà la minaccia principale. I problemi maggiori sono la povertà e le malattie, come lo sono sempre stati».
Secondo il saggio di Gates, le malattie legate alla povertà, come la malaria, uccidono circa otto milioni di persone ogni anno. Mentre circa 500.000 muoiono annualmente per eccessivo calore, «sorprendentemente, il freddo eccessivo è molto più letale, provocando quasi dieci volte più vittime».
Gates riconosce che «usare più energia è una cosa positiva», perché significa crescita economica. Tuttavia, osserva, gli attivisti dei paesi occidentali ricchi hanno spinto per mantenere i combustibili fossili sottoterra. «Questa pressione ha avuto un impatto quasi nullo sulle emissioni globali», scrive, «ma ha reso più difficile per i paesi a basso reddito ottenere prestiti a tasso agevolato per costruire centrali elettriche che fornirebbero energia affidabile a case, scuole e cliniche».
Gates invoca nuovi investimenti nell’innovazione, immaginando un mondo in cui «quasi tutte le nuove automobili saranno elettriche» e in cui cemento e acciaio puliti sostituiranno i materiali di oggi. Ma chiede, in vista della COP30, un cambiamento di clima intellettuale: «Una svolta strategica: dare priorità alle azioni che hanno il maggiore impatto sul benessere umano».
Concludo tornando all’altra svolta, la ritirata di Microsoft dalla Cina (non un abbandono totale di quel mercato inospitale, ma un ridimensionamento draconiano). Anche se Gates ormai non ha ruoli decisionali, pure qui la svolta è storica, perché va situata nel suo contesto.
Negli anni Novanta furono due i Bill che incarnarono lo spirito ottimista di quell’epoca «unipolare» in cui l’America sembrava in grado di esportare il suo modello nel mondo intero: Gates e Clinton. Tutti e due fecero dichiarazioni molto simili sulla Cina, di questo tenore: il regime comunista ha gli anni contati, con la globalizzazione che aumenta gli scambi di ogni genere, con Internet che diffonde informazione, l’autoritarismo è condannato, la democrazia e i diritti umani arriveranno anche a Pechino. La storia è andata diversamente.
  
Bill Gates è molto cambiato, perché lo stesso si può dire del mondo in cui viviamo. I suoi ripensamenti personali, le sue svolte, sono un segnale dello spostamento generale che è iniziato anche ai vertici dell’establishment progressista. Revisione autocritica, aggiornamento dei giudizi, presa d’atto di un nuovo contesto storico, e una sana reazione di rigetto verso le derive dottrinarie, dogmatiche, fanatiche, che hanno inquinato il pensiero progressista.
1 novembre 2025
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