A meno di due mesi dai falliti referendum sul lavoro promossi dalla Cgil, arriva la Corte Costituzionale a smontare ancora una volta un pezzo del Jobs Act, la riforma del lavoro approvata nel 2015 durante il governo guidato da Matteo Renzi. La Consulta è intervenuta per la sesta volta in dieci anni dall’entrata in vigore della legge. Questa volta per dire che è incostituzionale il tetto di sei stipendi di risarcimento che spetta al lavoratore di una piccola impresa fino a quindici dipendenti in caso di licenziamento illegittimo.

Viene meno così un altro tassello della riforma renziana, dopo le sentenze della Corte e gli interventi legislativi che negli anni hanno già modificato il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, la disciplina dei contratti a termine e le regole sulla fine del rapporto di lavoro contenute nella legge delega.

La questione dei risarcimenti nelle piccole imprese, tra l’altro, era oggetto del secondo quesito del referendum dell’8 e 9 giugno della Cgil. Il quesito ha ottenuto l’87,3 per cento di Sì, ma il mancato raggiungimento del quorum ha sbarrato la strada ai promotori dell’«abolizione» del Jobs Act. Abolizione che ora, per uno scherzo del destino, su sollecitazione della Consulta, potrebbe trovarsi a dover fare proprio l’attuale maggioranza di destra. Che però si era opposta al referendum promosso da Maurizio Landini e sostenuto dal Pd di Elly Schlein.

La differenza nella somma del risarcimento tra imprese grandi e piccole in realtà non se l’è inventata il Jobs Act. Già la legge 604 del 1966 sui licenziamenti (a cui si faceva riferimento nel secondo quesito del referendum) e anche lo Statuto dei lavoratori del 1970 prevedevano la distinzione.

Nel secondo quesito del referendum di giugno, si proponeva di eliminare la soglia massima del risarcimento per le piccole imprese, lasciando del tutto alla decisione del giudice l’ammontare complessivo dell’indennizzo da riconoscere al lavoratore. La Consulta, invece, ora fa un ragionamento diverso. La sentenza 118 (accogliendo parzialmente una questione sollevata dal Tribunale di Livorno) fa riferimento all’articolo 9, comma 1, del decreto legislativo numero 23 del 2015 del Jobs Act. Secondo la Corte Costituzionale, l’imposizione del limite massimo di sei mensilità «fisso e insuperabile, a prescindere dalla gravità del vizio del licenziamento», in aggiunta alla previsione del dimezzamento degli importi (indicati agli articoli 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, del Decreto legislativo n. 23 del 2015), fa sì che l’ammontare dell’indennità sia «circoscritto entro una forbice così esigua da non consentire al giudice di rispettare i criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento del danno sofferto dal lavoratore illegittimamente licenziato». Per i giudici, con un indennizzo così basso, verrebbe anche meno «la funzione deterrente della stessa indennità nei confronti del datore di lavoro». Anche perché nelle piccole imprese il risarcimento è, di fatto, l’unica tutela contro i licenziamenti arbitrari.

La Corte in aggiunta considera che, nel determinare l’entità del risarcimento, non si possa più fare riferimento solo all’unico criterio del numero dei dipendenti. Questo perché la forma e la sostanza delle imprese sono mutate. Prendendo come riferimento la legislazione europea e italiana sulla crisi d’impresa, i giudici sottolineano che «il criterio del numero dei dipendenti non costituisce l’esclusivo indice rivelatore della forza economica dell’impresa e quindi della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi». Possono ad esempio esserci pochi lavoratori assunti da grandi imprese, come nel caso delle sedi nazionali delle Big Tech che hanno invece molti collaboratori sparsi, per le quali non vale la logica della protezione delle piccole imprese.

L’effetto concreto della pronuncia farebbe sì che se per le grandi imprese in caso di licenziamento illegittimo sanzionato con il risarcimento, il range da corrispondere al lavoratore resta compreso tra sei e trentasei mensilità, per le piccole imprese fino a quindici dipendenti, restando la regola del dimezzamento delle mensilità, rispetto al precedente limite compreso tra un minimo di tre a un massimo di sei mensilità, adesso con il venir meno della soglia di sei mensilità si passa ad una forbice più estesa compresa tra un minimo di tre e un massimo di diciotto mensilità sulle quali potrà decidere il giudice del lavoro.

«La Corte Costituzionale reintroduce per via giudiziale ciò che il referendum non ha potuto ottenere per via democratica», fa notare l’avvocato Francesco Antonio La Badessa, partner dello Studio Ichino Brugnatelli e Associati. Il segretario della Cgil Maurizio Landini esulta. Soddisfatti anche i partiti di sinistra che avevano sostenuto la campagna per il «sì» ai referendum abrogativi. Preoccupate, invece, le associazioni delle piccole imprese, per il rischio di aggravio dei costi. Unimprese fa notare che in Italia ci sono 4,1 milioni di aziende con meno di dieci dipendenti che impiegano 7,7 milioni di lavoratori. Secondo l’associazione, dopo la sentenza, queste piccole aziende correrebbero ora il rischio di dover pagare anche 12-18 mensilità di retribuzione, con una media di 30-40mila euro di risarcimento.

Non a caso, la Consulta aggiunge anche «l’auspicio di un intervento legislativo» per stabilire nuovi criteri certi. Lo aveva già fatto in realtà nel 2022, quando con la sentenza 183 del 2022 aveva evidenziato l’illegittimità dell’articolo 9 del decreto 23 del 2015, lanciando un monito al legislatore perché intervenisse, altrimenti sarebbero intervenuto i giudici della Consulta. In assenza di un intervento del legislatore, quindi, tre anni dopo è arrivato il pronunciamento.

È l’ennesima modifica del Jobs Act attuata dalla Corte Costituzionale. La prima sentenza contro il contratto a tutele crescenti è arrivata nel 2018, una seconda nel 2020 sempre in relazione all’indennità risarcitoria. Solo nel 2024, le sentenze della Consulta che hanno dichiarato incostituzionali alcune parti del Jobs Act sono state tre. A questo si aggiungono gli interventi legislativi sui contratti a termine e l’innalzamento del tetto massimo del risarcimento dal 2018 in poi, che già da tempo fanno dire a esperti e giuslavoristi che sarebbe il caso di rimettere mano e riordinare le regole sui licenziamenti, troppo caotiche e frammentate.

La stessa Corte costituzionale ha sollecitato il legislatore a un intervento di semplificazione e razionalizzazione. Anche perché, con quest’ultima pronuncia, non solo aumenta il rischio di contenziosi. Ma anche l’incertezza per le imprese sui costi della eventuale fine di un rapporto di lavoro, e per i lavoratori che vogliano far valere le loro tutele.

Alla fine quelli che avevano proposto e sostenuto il referendum contro il Jobs Act almeno su un quesito sembrano aver vinto. Il tetto al risarcimento per le piccole aziende sparisce e servirà riscrivere le norme in materia. Ma a doverlo fare sarà, con molta probabilità la maggioranza di governo che si era opposta al referendum, facendo campagna per l’astensione.

Walter Rizzetto, deputato di Fratelli d’Italia, presidente della Commissione Lavoro alla Camera, nonché colui che ha affossato il salario minimo di Landini e Schlein, ha già detto di essere pronto «ad aprire una riflessione nel pieno rispetto delle decisioni della Consulta che sono legittime e intoccabili». Salvo ricordare che «quanto stiamo vivendo oggi è frutto di una mancata manutenzione delle norme del Jobs Act, passaggio che doveva essere a cura degli stessi governi che l’avevano proposto e realizzato».