C’è un nuovo Clementino in città. A 42 anni Clemente Maccaro – questo il vero nome, classe 1982 da Avellino – e dopo decine di viaggi in tutto il mondo, una presenza costante in tv come coach di The voice senior, due Festival di Sanremo e il ruolo di apripista per il rap e la musica in napoletano, in generale, nel mainstream, nel 2013, si riscopre più introspettivo, quasi cantautore. O almeno questo è ciò che racconta Grande anima, suo nono album, in uscita venerdì. “La svolta è la meditazione”, racconta. “Mio ha cambiato la vita. Al momento è importante quanto il freestyle”, la disciplina dell’hip hop in cui s’improvvisano rime davanti a un pubblico e di cui è considerato un fuoriclasse fin da ragazzo.
Insomma, anche per lei è tempo di bilanci?
“Sono partito dagli errori commessi, e da cui mi sono rialzato. Mi ero fatto prendere troppo dal personaggio, il rapper che fa la vita da rapper. Insomma, Clementino aveva vinto su Clemente: a trent’anni sono diventato famoso e da lì sono caduto nella tossicodipendenza, per due volte sono passato in comunità, è stato un periodo durissimo, in cui ho perso il controllo. Mi sono ripreso con dei viaggi, appunto. E ho cominciato a credere in qualcosa, l’anima, capendo quali forza mi salvano e quali no. Ora sono tornato Clemente, sono tornato a casa”.
La sua carriera, diciamocelo, ha avuto questi intoppi all’apice del successo. Oggi le dispiace?
“Certo, ma vuole mettere quando qualcuno farà un film su di me, be’, quanto materiale avrà? Il mio destino era questo, molto più movimentato di una carriera sempre al top. E poi dai problemi si esce più forti”.
Anche il successo, comunque, è arrivato tardi.
“Vent’anni fa, con l’hip hop, i tempi erano questi però. Io ci scherzo, ma neanche troppo: ho fatto il Vietnam. Prendevo regionali per chissà dove, facevo freestyle in qualsiasi locale, 50 euro e via. A volte, con altri rapper, dormivamo su brandine dietro la consolle. È stata tremenda e l’ambiente era selvaggio. Però s’imparava tanto: o si era bravi con le rime e il microfono, o tanti saluti. Ora no, ora chi prendevano in giro, quelli fatti apparenza e zero sostanza, hanno vinto”.
Si sente un esempio?
“Per due motivi. Perché anche nei momenti più brutti, dico, c’è una luce. E perché io, che vengo dalle falde del Vesuvio, dall’estrema provincia, comunque ce l’ho fatta, come artista. Il segreto è lo stesso in entrambi i casi: crederci”.
Il rap è un ascensore sociale?
“È l’unico ascensore sociale che funziona, in Italia. E anche a Napoli. Sono contento del successo di Geolier, può ispirare tanti ragazzi a evitare lo spaccio, le rapine e il resto, per credere nella musica. In questo senso, Napoli è cambiata: una volta c’era da avere paura ad entrare nei Quartieri Spagnoli, oggi è pieno di turisti. Dall’altro lato, è anche una moda: tutti vogliono essere napoletani, tra un po’ di anni tutti vorranno essere, che ne so, fiorentini e così via”.
Pregiudizi, lei, ne subisce ancora?
“Meno di prima. Quando più di dieci anni fa mi sono presentato a Sanremo cantando in dialetto era una bella sfida, in tanti me lo sconsigliavano. Solo Pino Daniele mi diceva di fregarmene e, anzi, si sarebbe arrabbiato se non avessi fatto ciò che sentivo”.
Pregiudizi sul rap, invece, ce ne sono ancora?
“Sì. È un genere dirompente, perché racconta la realtà: se poi è quella della criminalità, non sarà un problema. Una canzone, cioè, non sarà mai un problema. E lo dice uno che, piuttosto che far brutto, ha sempre fatto ‘bello’, che non appartiene a quel mondo e non ha mai fatto un furto in vita sua. Ma non giudico, ecco. In compenso diranno sempre che i rapper sono di cattivo esempio”.
Lo sono?
“Per le canzoni, ripeto, no. Anche perché se uccido una persona su suggerimento di un cantante, in un brano, be’, sono un idiota. Mi spiace semmai quando vedo sui social o altro che inneggiano alla droga o alla malavita, questo sì. Ma ciascuno è figlio del contesto in cui cresce, e il nostro è questo: ci stupiamo delle baby gang, dei ragazzi che si accoltellano, ma sui social e siamo sommersi da foto di massacri, di nazioni che si fanno la guerra, della strage di Gaza. O ancora, ci stupiamo se ci sono aggressioni omofobe, ma con un governo che attacca le persone gay, che ci aspettiamo? Il cattivo esempio vero, qui, lo danno i potenti del mondo, altroché”.
Molti suoi colleghi non prendono posizione, in nessun senso.
“Perché è pericoloso, oggi, farlo. La storia in generale è piena di personalità fatte fuori perché hanno detto ciò che pensavano, perché eretiche, da Giordano Bruno, arso vivo, a chi oggi viene cacciato dalla tv”.
Lei invece in tv ci sta benissimo. Com’è essere coach di The voice senior?
“Per me è una gioia, perché davanti a noi la gente rinascere: c’è chi ha subito un’operazione a cuore aperto, chi non vede i figli, chi è rimasto traumatizzato; tutti, in ogni caso, trovano una rivincita, un modo di rivalersi, nella musica. È bellissimo”.
A proposito di rivincite: lei tornerebbe a Sanremo?
“Sì. La prima volta, nel 2016, con Quando sono lontano, andò bene. La seconda molto meno, e mi è rimasta in sospeso. Vorrei chiudere un cerchio e ho dei pezzi in cui credo molto: a breve li proporrò a Carlo Conti, si vedrà”.
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