di
Marco Luceri

Un grande Valerio Mastandrea e una comunità di studenti appassionati della natura nell’ultima prova del regista livornese Paolo Virzì

È un film dolente, a tratti cupo, ma non privo di umana speranza, «Cinque secondi», ultima prova di Paolo Virzì, che abbandona nuovamente i toni della commedia per avventurarsi nella storia drammatica di un uomo che ha un rapporto irrisolto con la propria paternità, quello a cui dà volto e anima un grande Valerio Mastandrea.

Lui è un tizio dall’aria perennemente stropicciata, che «puzzicchia» e vive da solo nelle stalle di Villa Guelfi, una vecchia dimora disabitata e in rovina. Si chiama Adriano, è un ex avvocato di successo e passa le sue giornate a non fare nulla, con un mezzo toscano sempre in bocca ed evitando il contatto con chiunque.



















































Quando si accorge che nella villa si è stabilita abusivamente una comunità di ragazze e ragazzi che hanno in testa di curare quella campagna e i vigneti abbandonati, si innervosisce e vorrebbe cacciarli. Sono studenti, neolaureati e agronomi, guidati dalla caparbia Matilde, che è nata in quel posto e da bambina lavorava la vigna con il nonno, il conte Guelfo Guelfi.

Anche loro sono incuriositi da quel misantropo dal passato misterioso: perché sta lì da solo e non vuole avere contatti con nessuno? Mentre avanzano le stagioni, arriva la primavera, poi l’estate e maturano i grappoli, il conflitto con quella comunità di ragazze e ragazzi si trasforma in una bizzarra convivenza, fino a diventare una vera e propria «alleanza». E Adriano si troverà ad accudire la contessina Matilde, incinta di uno di quei ragazzi.

I cinque secondi che danno il titolo al film sono quella manciata di attimi che separa un’esistenza felice da una vita inesorabilmente segnata dal senso di colpa, una sorta di tempo che si restringe e si dilata a seconda dei punti di vista. Se il rapporto genitori/figli è da sempre stato al centro del cinema di Virzì, in questo film diventa un vero e proprio quesito morale, che trova la sua risposta nella consapevolezza di una sconfitta.

Il volto di Adriano è un paesaggio di macerie, il suo cuore si è ritirato ai confini del mondo, e la volontà di non condividere più nulla con nessuno è la pena che si autoinfligge per la perdita che ha dovuto subire. Eppure questa prigione è anche una protezione, uno scudo, che tuttavia verrà attaccato nuovamente dal mondo esterno.

Matilde e i suoi compagni, mossi dall’utopia di un ritorno alla terra, sono l’elemento fiabesco del racconto, quello che apre pian piano delle crepe nella fortezza di Adriano e lo costringe alla riappropriazione del suo essere, cercando di lenire le sue ferite. I due – Adriano e Matilde – sono asimmetrici e per questo funzionano a meraviglia come «cuore» drammaturgico della vicenda, che Virzì non poteva non ambientare nella «sua» Toscana, crepuscolare e vagamente allegorica, ancora sospesa tra la rovina e il riscatto.

Regia: Paolo Virzì; Interpreti: Valerio Mastandrea, Galatea Bellugi, Valeria Bruni Tedeschi; Sceneggiatura: Paolo Virzì, Francesco Bruni, Carlo Virzì; Fotografia: Luca Bigazzi; Montaggio: Jacopo Quadri; Scenografia: Sonia Peng; Costumi: Ottavia Virzì; Distribuzione: Vision. Italia, 2025, 105’.

A Firenze è in questa sala: Fiamma, Fiorella, Portico, The Space, Uci.


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31 ottobre 2025