Un “cervello in fuga”? Uno di quei ricercatori che l’Italia rimpiange e che all’estero fanno faville, tipo restituire la vista ai malati di maculopatia? Martina Corazzol, bellunese di Pedavena, 37 anni, mette subito i punti sulle i: «Non abbiamo restituito la vista, però, sì, l’84% dei pazienti del nostro studio ha dichiarato di riuscire a leggere lettere, numeri o parole. E i più bravi sono anche riusciti a leggere dei testi utilizzando gli occhiali che abbiamo preparato».
Si potrà anche minimizzare, ma per chi soffre di maculopatia, riuscire ad acquistare “un po’” di vista equivale a un miracolo. Tant’è che i risultati di questo studio sono stati pubblicati su importanti riviste scientifiche, per poi essere ripresi da The New York Times. La curiosità è che nel team di ricercatori c’è anche una veneta. Appunto, Martina Corazzol, laureata in Ingegneria Biomedica all’Università di Padova nel 2012, poi “emigrata” in Francia per conseguire un dottorato in Neuroscienze Cognitive e, al momento, naturalizzata parigina.

APPROFONDIMENTI













LO STUDIO

Di che si tratta? Fondamentalmente di una protesi che aiuta a riacquistare “un po’” di vista. «Le persone affette da maculopatia – spiega l’ingegnere Martina Corazzol – hanno una parte residua di visione. Finora tutte le cure hanno cercato di rallentare la malattia. La protesi che abbiamo messo a punto è rivoluzionaria perché aiuta a riacquistare un po’ di vista». Lo studio è iniziato cinque anni fa, si chiama “PRIMAvera”, dove PRIMA è il nome della protesi. È stato uno studio multicentrico europeo che ha coinvolto quasi una quarantina di persone e che è stato attivato da una start-up. Una società che purtroppo ha avuto vita breve, ma i cui lavori non sono finiti al macero. Il dispositivo PRIMA è stato infatti poi sviluppato dalla Biotech californiana Science Corporation. «Lo studio PRIMAvera – spiega Corazzol – è un trial clinico internazionale multicentrico che valuta l’efficacia e la sicurezza di un fotovoltaico subretinico per il ripristino della visione centrale in pazienti affetti da atrofia geografica dovuta a degenerazione maculare legata all’età. Questa tecnologia rappresenta un’innovazione nel campo della medicina rigenerativa oftalmologica, offrendo una possibile soluzione per patologie visive precedentemente considerate incurabili. È infatti il primo impianto che ha dimostrato di poter migliorare l’acuità visiva nei pazienti. L’impianto propone la sostituzione funzionale dei fotorecettori degenerati tramite stimolazione elettrica della retina interna. La stimolazione avviene tramite uno speciale paio di occhiali con fotocamera e proiettore a infrarosso integrato».

I NUMERI

Lo studio PRIMAvera, condotto su 38 pazienti – età media 79 anni – ha valutato l’efficacia dell’impianto a 12 mesi. Dopo un anno, dei 32 pazienti disponibili al controllo, 26 hanno avuto un miglioramento della vista, corrispondente ad almeno due linee sulla tabella oculistica nell’occhio trattato. L’84% dei pazienti ha dichiarato di riuscire a leggere lettere, numeri o parole, e i più bravi sono anche riusciti a leggere dei testi utilizzando gli occhiali predisposti dallo studio. Va sottolineato che l’atrofia geografica colpisce la visione centrale, tant’è che i pazienti spesso la descrivono come “vedere il mondo attraverso i lati di un tunnel”, come se una macchia nera o grigia bloccasse la parte più importante della loro vista, cioè quella centrale. Ecco perché la lettura diventa particolarmente difficile, le parole e le lettere sembrano scomparire quando si cerca di metterle a fuoco. Lo studio è stato condotto in 17 centri clinici di 5 paesi europei. Tre pazienti a Roma sono stati seguiti dal professor Andrea Cusumano. Sheila Irvine, 70 anni, non vedente, ha dichiarato alla Bbc che è stato “straordinario” poter leggere e fare di nuovo le parole crociate dopo tanto tempo: «È bellissimo, meraviglioso. Mi dà un piacere immenso».

L’ITER

«La protesi – spiega l’ingegnere Corazzol – non è ancora disponibile nel mercato, ma è già iniziata la pratica per avere tutte le autorizzazioni.

Inutile chiederle se tornerà in Italia. «Ho sempre voluto studiare l’ingegneria biomedica, la prima volta che ho lasciato l’Italia è stato con l’Erasmus. Se all’estero si trovano più occasioni rispetto all’Italia? Direi di sì».