di Massimo Donà

«Non è forse vero che, fin dall’antichità, le maschere sono state un modo per cancellare la propria identità e ingannare gli altri?», riflette il pioniere della storia della fotografia italiana in questo dialogo che va al cuore del nostro complicatissimo rapporto con l’immagine. E con la realtà

Tutti ormai sanno che da tempo l’universo della comunicazione è sostanzialmente dominato dalle immagini e che le parole sono sempre più frequentemente ridotte a semplici didascalie, concepite quale semplice supporto alla potenza pressoché incondizionata del “visivo”. Ormai ci rapportiamo al mondo quasi sempre per via indiretta, attraverso lo schermo di vari dispositivi tecnologici; attraverso pixel privi di qualsiasi consistenza corporea. Si pensi anche alla sorprendente crescita del formato graphic-novel, di cui sono sempre più ricolmi gli scaffali delle librerie. Come se anche la narrazione avesse cominciato a convincersi di poter essere anch’essa notevolmente rafforzata dall’uso dell’immagine.
D’altro canto, dopo l’antico dominio dell’oralità (si pensi alla tradizione omerica o al mondo del mito) e dopo il progressivo imporsi della scrittura (peraltro ancora deprecata da Platone; evidente vittima di una insopprimibile nostalgia per la vitalità del linguaggio orale), si sarebbe passati, soprattutto a partire dal Novecento, ad un progressivo imporsi dell’immagine in tutte le sfere dell’esistenza umana.
Questa terza era del nostro Occidente è stata segnata anche dall’importante svolta — risalente alla prima metà dell’Ottocento — costituita dalla nascita della fotografia. 

Con l’imporsi dei primi “specchi della memoria” (così venivano definiti i pionieristici dagherrotipi) e delle prime forme di “negativo”, rese possibili dalla Calotipia (invenzione dovuta al genio di Talbot), doveva iniziare l’intricato ed emozionante percorso che ci avrebbe condotti sino alle immagini digitali del nostro tempo, destinate a svincolare l’atto del fotografare dal possesso di specifiche conoscenze tecniche e da particolari e non di rado molto costose tecnologie.
La fotografia avrebbe sempre più radicalmente messo in questione il millenario dominio della pittura, facendo saltare lo stesso primato della “manualità”. Sì, perché, con un semplice “clic”, del tutto meccanico e impersonale, si sarebbe potuta produrre un’immagine talvolta spettacolare, sorprendente, se non addirittura intrisa di quella “fantasia” che non sempre era riuscita ad animare le immagini create col pennello.
Ma mi rivolgo ora ad un vero Maestro della fotografia, che ha impreziosito con una bellissima prefazione il mio Filosofia della fotografia. I prodigi di un insospettabile “obiettivo” (Silvana Editoriale, 2025). Maestro sia in quanto formidabile storico di questa rivoluzionaria pratica (è a lui, infatti, che venne assegnata, una cinquantina d’anni fa, la prima cattedra di storia della fotografia dell’Università italiana) sia in quanto raffinatissimo fotografo (a cui è stata da poco dedicata una grande mostra a Pordenone, curata da Giulio Zannier e Marco Minuz, intitolata Io sono io).



















































Le foto che non ho fatto

Mi trovo infatti a Venezia, alla Giudecca, in compagnia di un Maestro che ha pubblicato moltissimo; ricordo solo il suo ultimo volume Cronache di un fotografo impenitente. Un’autobiografia (La nave di Teseo, 2024). In una splendida cornice di luce, mi rivolgo dunque a Italo Zannier, chiedendogli quali siano, tra le moltissime destinate a costellare il suo quasi secolare itinerario creativo, le fotografie a cui è più legato «in quanto fotografo».
La sua risposta è oltremodo sorprendente: «Quelle che non sono riuscito a fare;
certo, anche quelle che non ho fatto per vari motivi (la pioggia, il vento, e altro). Ma soprattutto due, tra quelle che non ho fatto. Ne ho due, nella memoria, che risalgono ad un tempo culturale particolarmente importante a livello internazionale».

E me le racconta.
«Venezia; Scuola di Industrial Design ai Carmini. Una mattina, nella nebbia, vedo in una calle lunga che conduce a San Trovaso una figura di spalle, nella nebbia. Capisco che si tratta di Nathan Rogers, un grande architetto di quegli anni (autore anche della Torre Velasca a Milano) – che insegnava anche lui, come me, alla scuola di Design appena ricordata. Nella lunghezza della calle c’era solo quella figura di spalle. Alla fine, lo raggiunsi e andammo a bere un caffè in campo San Barnaba. Sì, era proprio Ernesto Nathan Rogers».
«Seconda immagine. New York. La prima volta che sono andato a New York. Erano anni “antichi”. Mi dovevo vedere con John Phillips, fotografo di punta di Life. Al mio arrivo, John mi porta subito in un ristorante italiano nell’East Side. C’erano John Phillips, sua moglie, Cornell Capa (fratello di Robert Capa) e altri amici. Nel ristorante si creò subito un’atmosfera di grande convivialità. Cornell Capa era con la moglie (la quale stava vivendo un periodo di grande depressione), una scrittrice e una donna davvero formidabile. Cornell, tra l’altro, aveva fondato l’International Center of Photography, che è il più grande Centro mondiale di fotografia. Alla fine della cena siamo usciti. New York, ancora nebbia. Cornell, che era un uomo con le spalle larghe – davvero una magnifica persona – con la moglie accanto a lui, si stava dirigendo verso casa. Ecco, nella nebbia newyorkese, di spalle, vedevo scomparire lentamente Cornell Capa, di schiena, abbracciato alla grande scrittrice americana… ma purtroppo, anche questa volta, non avevo la macchina fotografica. Si tratta di due fotografie che ricordo alla perfezione; le potrei addirittura ricostruire. Per quanto si tratti di ricordi notturni. Ecco, in questo caso la memoria ha trattenuto un’immagine non fatta. Che potrei anche disegnare». Una vera e propria «immagine mancata», aggiungo io. Una sorta di memoria del non fatto, del non accaduto, del non catturato.

Realtà e illusione

D’altro canto, come ho cercato di mostrare nel volume da me dedicato all’arte inventata da Daguerre, forse tutte le immagini fotografiche catturano quel che non solo non è accaduto, ma, ancor più radicalmente, non esiste e non è mai esistito. Per questo ritengo che lo scatto fotografico tocchi un tasto oltremodo decisivo per qualsivoglia teorizzazione dell’immagine e delle sue condizioni di possibilità.
E a questo proposito mi chiedo: e se tutte le immagini – quelle di cui è ormai impregnata la vita di ognuno di noi – non fossero altro che testimonianze di quel che sarebbe potuto essere, ma non è stato; proprio come le fotografie mancate, e così poeticamente rievocate dal Maestro che ho qui di fronte a me, seduto in fondamenta, alla Giudecca?
«Una cosa è sicura», mi dice Zannier, «con la fotografia cambia tutto. L’anelito a farsi un’immagine della realtà è inscritta nell’uomo da sempre. Ma – chiediamocelo – come abbiamo immaginato, noi umani, la realtà? Non è forse vero che le maschere sono sempre state un modo per cancellare la propria identità ed ingannare gli altri? Si pensi alle grandi e pesanti maschere indossate dagli attori nel teatro greco, o a quelle utilizzate in molte delle ritualità più arcaiche (ad esempio nelle civiltà oceaniche o in quelle africane). Ecco, io credo che la vera maschera della modernità sia appunto la fotografia. Le cui immagini sono tanto più potenti quanto più ingannevoli. Certo, l’immagine è stata dapprima scolpita, poi disegnata come imitazione della realtà concreta. Nelle grotte di Lascaux si disegnavano i cavalli; forse per testimoniare che di lì erano proprio passati dei cavalli. All’inizio le realtà venivano solo modellate, o scolpite; poi si sarebbe cominciato a prendere un pennello. Ma dovevano passare quasi duemila anni, perché si arrivasse a Michelangelo, a Raffaello. In ogni caso, anche l’imitazione del pittore sorvola la corposità del reale. Piero della Francesca, ad esempio, sintetizza la visione concreta della realtà, ma la trasfigura e la trasforma in una realtà immaginaria, e forse per questo massimamente poetica».
E dunque anche immateriale?
«Il fatto è che la fotografia» continua Zannier «ha dato corpo ad un’immagine solo “illusoriamente” precisa del reale. Si sarebbe anzitutto giunti alla camera ottica, che costituisce la preistoria della fotografia. Per arrivare poi alla fotografia vera e propria, grazie all’aiuto della chimica e dell’ottica. Anche il microscopio ha contribuito a traghettarci verso la fotografia. Facendoci scoprire, con il semplice ausilio di una lente, che dentro una goccia d’acqua vi sono stranissimi e misteriosi esseri simili a serpenti. Scienza e tecnologia, insomma, avrebbero generato un nuovo modo di guardare al mondo. Procedendo sempre più velocemente verso l’invisibile». Come dice anche il titolo di un altro bellissimo volume scritto da Zannier nel 2016 e intitolato appunto Verso l’invisibile. La fotografia, tra eventi, invenzioni e scoperte nel XIX secolo (Quinlan, 2016).

Quel singolo fotogramma

Ma a questo punto, chiedo a Italo: chi può onestamente dire di aver mai visto l’immagine catturata dallo scatto fotografico? Cioè, chi può dire di aver incontrato, nella propria esperienza, quel singolo fotogramma? Quell’istante “separato dal flusso dell’esperienza”, come ci viene restituito appunto dalla magia dello scatto fotografico?

Insomma, quello che ci viene restituito dallo scatto fotografico è un mondo che nessuno ha mai visto; neppure il suo autore.
Continua Zannier: «Infatti… la fotografia ci restituisce una realtà solo apparente; influente, sì, dal punto di vista sociologico, perché ci dà anche informazioni sul reale; facendosi testimone della fame in India, della guerra in Ucraina etc etc. Ma dà corpo a un’immagine solo falsamente credibile. Certo, quella della parola è una cultura radicata, tradizionale, che si insegna nelle scuole. In questo senso, le parole sono più o meno acquisite, nei loro valori; appunto perché c’è una tradizione che ci ha educato ad usarle. Di tutt’altro genere è invece il nostro rapporto con l’immagine» continua Zannier. «Un rapporto che è sempre stato sostanzialmente religioso. Le immagini di Gesù, ad esempio, hanno voluto farci credere alla sua divinità. Mentre la cultura ebraica sa più intelligentemente destreggiarsi tra quella che è un’idea della realtà e quella che, invece, non è affatto una semplice idea. La prospettiva cattolica, cioè, vuol farci credere che Gesù sia realmente risorto. Ecco, io vorrei essere un poliziotto per vedere dove hanno nascosto il corpo di Gesù».
In ogni caso Zannier mi fa capire che qui si tratta di porre anzitutto la questione dell’analfabetismo che penalizza il nostro rapporto con le immagini.

«Certo, esiste anche l’analfabetismo letterario, ma questo viene ben presto addolcito; e il suo “pressappoco” viene in qualche modo “precisato” dall’immagine. Ad esempio, il bicchiere ha sicuramente un suo significato, più o meno complesso; ma per fortuna ci viene in soccorso l’immagine disegnata, che, sola, sembra in grado di darci conforto. Addolcendo il nostro difficile rapporto con le parole. Facendoci credere, cioè, di poterne capire meglio il significato. Ma, in verità, di queste immagini, che sembrano rendere tutto più chiaro, non sappiamo nulla. La scuola, infatti, non ci ha mai educato alla loro decifrazione».
Importante è poi, continua Italo, «il passaggio dal microscopio alla fotografia; quest’ultima, infatti, non è più scopica, ma grafica. In quanto fatta di segni stampati, e non solo visti al microscopio. Ossia, fissati su un supporto. È importante, credo, questa distinzione tra “scopìa” e “grafìa”. A tal proposito merita anche ricordare che furono gli alchimisti i primi a lavorare con la luce, ossia, a cercare di produrre immagini con la luce. A cercare di realizzare il “miracolo” costituito da un’immagine fatta di pura luce».

La più antica della storia

Ormai la nostra conversazione sta per concludersi, ma Italo non può fare a meno di ricordarmi che «il prossimo anno è l’anniversario della fotografia più antica del mondo, quella di Niépce. Scattata appunto nel 1826». E aggiunge, quasi sottovoce: «Mi piacerebbe che si facesse qualcosa per ricordare i duecento anni dalla prima fotografia. Affinché si possa tornare a riflettere sulla straordinarietà, ovvero sul potere magico di quelle immagini-di-luce, ossia delle foto-fanìe profetizzate già da un romanzo del Settecento (uno straordinario romanzo di fantascienza pubblicato in pieno illuminismo) scritto da Tiphaigne de la Roche: quel Giphantie in cui il protagonista attraversa un lungo corridoio sulle cui pareti sono appese al muro centinaia di “fotografie” allestite per consentirci di ripercorrere la storia dell’umanità».

30 luglio 2025