Chissà se Sergio Antonielli aveva in mente Balzac e il suo classico racconto “Una passione nel deserto” quando scrisse e pubblicò nei Gettoni di Vittorini (che ne fu entusiasta) un romanzo breve troppo presto dimenticato, ora riproposto (riscoperto?) in una preziosa edizione da Paligenia: La tigre viziosa. Piacque a tutti, nel ’54, da Calvino a Montale che lo recensì sul Corriere, da Carlo Bo a Piero Chiara, da Pietro Citati a Sergio Solmi. E’ la storia di una tigre indiana che in qualche modo esonda dalle leggi naturali e prova un piacere sempre crescente (erotico?) per la carni degli umani, ma anche a volte pietà, per esempio per uno sciacallo. Non è un’allegoria ma piuttosto un romanzo psicologico, raccontato ovviamente dal punto di vista dell’animale. Antonielli (1920 – 1982), docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Milano, è stato un importante studioso e critico letterario, soprattutto di poesia, e in qualche modo, benché abbia scritto fra il ’49 e il ’79 ben otto romanzi e un racconto lungo, Il rito dello spettacolo, come tale è ricordato. La tigre viziosa fu tra i suoi libri quello che ebbe maggior fortuna anche postuma, riproposto da Mondadori nel ’79; ma non si può dire che sia entrato nel canone novecentesco.
Come scrittore, Antonielli aveva esordito ispirandosi al campo di prigionia appunto indiano in cui, catturato ad El Alamein, era stato rinchiuso dagli inglesi, ma per il resto la sua attenzione all’antroporfismo, la tecnica degli animali parlanti inaugurata da Esopo, non è mai venuta meno. In altri libri ha dato voce, per esempio, a un venerabile Orango e a un Elefante solitario (e ribelle) ma anche ai delfini di un acquario, visti come emblema della condizioni intellettuale italiana, costretti cioè a dare spettacolo in una vasca fra compiacimento e rifiuto, desiderio di fuga e desiderio altrettanto invincibile di fama. Con una domanda senza risposta: «E se una volta ributtati a mare non sappiamo più starci? Chi se lo ricorda più, come si fa? Può darsi che ci venga il bisogno di ritrovarci in una vasca, di ritirarci in qualche angolino di bassofondo, col fiatone, con la paura dello spazio. Può darsi che si muoia, per eccesso di vita». Ricorda qualcosa a qualcuno?
Così la tigre, o il tigre visto che di un esemplare maschio si tratta, che vive da animale e pensa da uomo, e come scrive Alberto Cadioli nella postfazione alla nuova edizione, non sarà più «emblema di un vizio o di una virtù, come nelle favole antiche», perché da protagonista «pensa, ricorda, collega i fatti, prova nostalgia e desideri, amori e odi, paure e spavalderia, orgoglio e delusione, in una sorta di confessione che prende il via con il dolore, fisico e morale» e finisce con un fatale colpo di fucile. Nel suo parere molto favorevole per la Mondadori quando si decise la riedizione del’79, Giuseppe Pontiggia scrisse con molta ammirazione qualcosa di simile, vendendo nell’attrazione per gli umani da parte della tigre indiana «insorgere di una sensibilità che la renderà fatalmente fragile e indifesa». Come in altri romanzi di Antonielli, ma qui con maggiore evidenza, si tratta infatti non di una narrazione allegorica ma di una riflessione narrativa sulla corruzione (umana, e forse non solo).
E’ curioso che l’accoglienza molto favorevole del mondo intellettuale in prima e seconda battura non abbia in realtà avuto seguito, negli anni. Fatali distrazioni. Così, poniamo quando al Campiello del 2022 si è visto il trionfo del giovane Bernardo Zannoni con I miei stupidi intenti (storia umana ovviamente, storia di formazione raccontata però da una faina) si sia gridato alla novità e persino al miracolo. Quanto a Balzac, il suo racconto dove l’ufficiale Augustin perso nel deserto si innamora ricambiato d’una pantera che pure non parla ma all’occorrenza ruggisce – e finisce male – andrebbe riletto oggi accanto alla Tigre viziosa: ne è l’esatto doppio speculare.