Jannik a Parigi se l’è presa con Cahill perché non ha reagito a un suo break, come se l’avesse dato per scontato. Capita, a talenti così. Diego aveva Ferrara, Bagni, Giordano…


Luigi Garlando

Giornalista

4 novembre – 07:38 – MILANO

Il tennis è l’unico sport in cui sono i giocatori a strigliare gli allenatori. Immaginate Spinazzola che sbraita isterico a Conte, come fanno Djokovic o Medvedev con i loro coach. Non ne uscirebbe illeso… Ma lo screzio di Sinner con il maestro Cahill, durante la semifinale contro Shelton, è stata un’altra cosa, forse il momento umanamente più intenso della settimana parigina. Pensateci. Jannik ha appena piazzato il break del 3-2 all’inizio del secondo set. Guarda verso il suo team e si spaventa: nessuno si è alzato in piedi, né Cahill, né i collaboratori. Nessun lampo di meraviglia negli occhi, come se avessero considerato tutto scontato, normale, come se con quell’immobilità gli avessero detto: “Ormai non hai più bisogno di noi. Puoi proseguire da solo”. Jannik deve aver provato una fitta di solitudine, come forse Duplantis dopo il 14° record del mondo, come Pogacar dopo la milionesima vittoria.

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il vuoto attorno ai campioni—  

Il talento isola i fuoriclasse eccezionali, li rende inarrivabili, crea un vuoto attorno. Specie negli sport individuali. Maradona era una divinità, ma aveva Ferrara che lo andava a prendere a casa per portarlo ad allenarsi, se non riusciva ad alzarsi dopo una notte impegnativa. E aveva Bagni, Giordano, Carnevale… Era un dio tra buoni amici. Sinner ha temuto di perdere i suoi apostoli e ha ringhiato: “Ho fatto il break. Perché diavolo ve ne state seduti?”. Ma, alla fine del match e della finale vinta, ha abbracciato Cahill e gli altri. Ha chinato la testa rossa all’interno di quell’affettuoso cerchio di braccia, felice. È tornato dio del tennis. Ma, senza uomini, un dio non ha senso.