Ho capito che era tutto finito nel modo in cui si capisce che è tutto finito in questi anni: non con un programma politico o un comizio, non con un dibattito o un’intervista, non con un botto ma con un mugolio, non con un programma televisivo ma con un video di Instagram. Ho capito che era tutto finito da un giochino messo in un reel.

Ho capito che era tutto finito una settimana fa, quando una pagina Instagram che fa a New York ciò che Enrico Papi faceva a Roma, far sentire inizi di canzoni a gente che le indovina, ha fatto mettere le cuffiette a Zohran Mamdani, che da piccolo faceva il rapper e da grande avrebbe fatto il sindaco.

(Divagazione ma non troppo: Mamdani ha trentaquattro anni, e sappiamo che i mezzi trenta per un uomo sono un baratro e per un rapper ancora di più. A quell’età Lorenzo Jovanotti andava a Sanremo con “Cancella il debito” e andava da Vespa a litigare coi politici sulla guerra in Iraq: a quell’età devi stare il più fermo possibile e sperare di non capitare davanti al bivio ingannevole o alla compagnia sbagliata. Diceva Pauline Kael che il compito più importante e difficile che abbiamo è scrollarci di dosso i successi che ci intrappolano, e metti, che ne so, che Lorenzo avesse avuto lo sghiribizzo di farsi eleggere sindaco di Milano: oggi avremmo un ex sindaco di Milano che a sessant’anni ancora si mette i cappellini da baseball e sospira vantando qualche mostra organizzata sotto la sua gestione, e non il tizio che poi ha scritto “Mi fido di te” e “Come musica”).

Ho capito che era tutto finito quando la pagina Instagram @trackstarshow ha fatto sentire gli inizi di alcune canzoni newyorkesi all’allora quasi sindaco di New York, e quello non ha riconosciuto neanche dopo molti secondi “New York State of Mind”, che noi ragazze del secolo scorso pensiamo riconoscerebbe anche un sordo, anche uno appena arrivato da Marte, anche uno che a New York fosse stato cinque notti e sei giorni con un viaggio organizzato e l’albergo a Times Square.

Certo, Zohran Mamdani è della generazione che nun sape mai nu cazz’, che della storia del Novecento sa solo i bocconcini premasticati dei documentari Netflix, e lo splendidissimo “And so it goes” sta su Sky e Now. Ma candidarsi a sindaco di New York e dire «mi scuso, ma Billy Joel non è tanto roba mia» è come candidarsi a sindaco di Roma dicendo «Venditti chi?».

Lo so, c’è la piaga del presentismo, e la generazione Z(ohran) risponderebbe «ma non era nato»: “New York State of Mind” è del 1976, Mamdani non sarebbe nato per altri quindici anni. Sapete che canzone c’era quindici anni prima che nascessi io? “Volare”. Se a trentaquattro anni non avessi riconosciuto “Volare” – no, niente, non mi viene neanche in mente un’ipotesi di cosa avrebbero potuto fare di me, forse usare le mie carni ancora non frolle per fare il ragù.

«La vita forma i vecchi con adolescenti che durano un bel po’ di anni», diceva un certo Marcel, blogger di cent’anni fa inspiegabilmente mai candidatosi a sindaco di Parigi, e non è mai stato vero quanto oggi, quando possiamo illuderci che Marcel non lo leggano perché chi legge più le frasi di quaranta righe (a parte i pervertiti appassionati di questa paginetta), ma la verità è che un libro di cent’anni fa non lo leggerebbero neanche se fosse a fatica zero come una card di Instagram, perché eh-ma-non-ero-nato, perché ma cosa me ne frega di tutto ciò che non ora e qui, di tutto ciò che non è fatto dai miei coetanei per i miei coetanei.

È tutto d’un tale presentismo che ieri mi sono accorta che le due parole con cui è più sensato definire la divisione quasi perfettamente a metà dei newyorkesi tra Andrew Cuomo e Zohran Mamdani, quelle due parole non esistevano fino a meno di tre anni fa. Era il dicembre del 2022 quando il New York Magazine fece la copertina sui nepo baby, quelli la cui carriera più che sulle loro doti si basa sull’ereditarietà.

Andrew ha ereditato dal padre la politica, Zohran ha potuto farsi mantenere dalla mamma e non far nulla fino a un’età da studente del Dams fuori corso. Un altro tassello dell’italianizzazione della politica americana. Ilaria Salis ieri ha twittato (o come si dice ora) il suo bravo santino della vittoria del sindaco americano che non ha mai lavorato prima d’ora (non è vero, una decina d’anni fa ha fatto l’assistente alla regia in un film della sua mamma) con il commento «Quando la classe lavoratrice vince, ovunque diventiamo più forti». Oblomov, Stakhanov: sempre Russia è, mica vorremo cavillare.

C’è un video di Mamdani al seggio, sta votando e i giornalisti gli dicono che è morto Dick Cheney. Lui chiede «ah, quand’è successo?» con la faccia di circostanza che abbiamo quando a una festa ci saluta qualcuno che non sappiamo chi sia. Ho pensato che l’altro morto del giorno, Giorgio Forattini, avrebbe probabilmente fatto lo stesso effetto a Elly Schlein: oddio, chi era pure?

C’era sempre quel Marcel, il blogger parigino, che diceva che «chiamiamo ancien régime tutto ciò di cui non abbiamo conosciuto che la fine; per cui ciò che scorgiamo all’orizzonte assume una grandezza misteriosa e ci sembra richiudersi su un mondo che non vedremo più». E che il régime non ancien non ritenga importante sapere cos’è venuto prima mi pare evidente, ancora più evidente che il mondo fatto non di frasette e di meme non lo vedremo più; ma la domanda è quando sia iniziato questo mondo qui.

Osservavo Mamdani che teneva il suo discorso della vittoria agitando quella mano con enormi anelli argentati e mi chiedevo se non dovessimo ringraziare quel gigantesco ammortizzatore sociale che è La7, che ai leaderini da assemblea d’istituto con anelli argentati affida la conduzione o il ruolo di ospite fisso nei talk-show, evitando di farceli ritrovare sindaci.

Osservavo Mamdani che iniziava il suo discorso dicendo a Trump «Lo so che stai guardando: alza il volume», e mi tornava in mente l’ultimo cui pensiamo quando pensiamo alla comunicazione contemporanea, cioè il George W. Bush del settembre 2001. Che, certo, l’internet si diverte a sbeffeggiare con la faccia da pirla che aveva quando, mentre era in visita a una scuola, gli dissero che stavano entrando degli aerei nelle Torri Gemelle (una circostanza in cui tutti noi avremo immediatamente fatto la faccia giusta capendo perfettamente la situazione, diamine).

Ma il meme che ha avviato questo secolo sbandato è di tre giorni dopo. È Bush col megafono, il tizio che gli urla «non ti sentiamo», e lui che ha la prontezza di rispondere «io vi sento, il mondo vi sente, e le persone che hanno tirato giù questi palazzi presto ci sentiranno tutti». È in quel momento, credo, quando i telefoni con la telecamera ce li avevano ancora in pochi e il secolo aveva ancora tutto o quasi tutto da sbagliare, che decidiamo che ci interessa solo la risposta pronta.

C’è una linea diretta che arriva da quel Bush lì a questo Mamdani qui, ed è una linea che decide che le frasette accattivanti non devono più stare nei comizi o negli spot elettorali. Non è che «Leggete il labiale: niente più tasse» o «Un milione di posti di lavoro» non fossero slogan memorabili. Ma erano prima dei reality e dei telefoni con la telecamera: era quando non avevamo ancora innalzato altari alla spontaneità e al backstage.

Non ce ne importa niente della realizzabilità dei programmi elettorali, della preparazione dei candidati, delle ideologie, di quei cascami del Novecento che sono destra e sinistra. Ci importa solo che la battuta pronta sembri sufficientemente improvvisata da illuderci che il candidato sia uno di noi. Uno di noi cazzoni che buttiamo le giornate sull’internet, mica un grigio burocrate con dei professionisti che gli scrivano risposte brillanti. Uno di noi che non conosciamo i classici, ma capiamo il presente abbastanza da sapere che il meme te la dà, e il meme te la toglie.