di
Giovanni Bianconi
La svolta a maggio quando la Libia riconobbe la giurisdizione dell’Aia. Le autorità libiche potrebbero comunque non consegnarlo alla Corte penale
La svolta annunciata ieri dalle autorità libiche con l’arresto e il rinvio a giudizio di Osama Njeem Almasri ha le sue origini in primavera, quando a Tripoli è cambiato il vento per lui e per la sua Rada, la forza di deterrenza speciale anticrimine e antiterrorismo. In Italia il nome del generale imperversava già da qualche mese, dopo che a gennaio era stato arrestato a Torino (in esecuzione del mandato d’arresto della Corte penale internazionale che lo accusa di crimini di guerra e contro l’umanità) ma liberato e rispedito in patria nel giro di due giorni, con aereo di Stato e portato in trionfo dai propri miliziani.
Nel frattempo il tribunale dei ministri di Roma svolgeva l’indagine su eventuali reati commessi dai rappresentanti del governo che avevano fatto scarcerare e rimpatriare Almasri; accertando fra l’altro che con la Rada, di cui il ricercato dalla Cpi era un «elemento di spicco», i servizi segreti italiani avevano «una collaborazione molto proficua in materia di contrasto ad attività criminali di vario genere, con particolare riferimento a quelle legate ai traffici di esseri umani» e altro.
In Libia però cominciava a mancargli il terreno sotto i piedi. Il 12 maggio il governo guidato dal primo ministro Abdul Hamid Dbeibah comunicava alla Corte dell’Aia di accettare la sua giurisdizione, pur non aderendo al trattato che l’ha istituita. Un segnale d’allarme per Almasri, mentre negli stessi giorni le truppe della Rada stavano avendo la peggio negli scontri armati a Tripoli e dintorni, che avevano provocato quasi cento morti e decine di feriti. E una settimana dopo, il 19 maggio, lo stesso premier Dbeibah si dichiarò «sorpreso del rapporto terrificante della Cpi» a carico del generale, chiedendosi: «Come possiamo fidarci di qualcuno che ha violentato una ragazza di 14 anni? Non posso accettare la presenza del criminale Osama Njeem dopo avere letto ciò che ha scritto la Cpi».
Una pubblica scomunica che valse a Dbeibah l’elogio del procuratore presso la Corte dell’Aia Karim Khan, insieme alla rinnovata richiesta di arresto e riconsegna del ricercato. E che riletta oggi suona come l’anticipazioni dei delitti contestati ora dalla Procura libica all’ormai ex capo della polizia giudiziaria, «relativi alla violazione dei diritti di dieci detenuti presso il Centro di correzione e riabilitazione principale di Tripoli, e alla morte di un detenuto a seguito di tortura».
Una gamma di accuse apparentemente ridotta rispetto a quella dei giudici dell’Aia, che alle torture hanno aggiunto violenze sessuali e stupri anche di minorenni, omicidi e tentati omicidi, processi ed esecuzioni sommarie, riduzione in schiavitù, schiavitù sessuale e persecuzioni di altro tipo, commesse fra il 2014 e il 2024. Può darsi che qualcosa coincida tra i due procedimenti, ma quello della Cpi sembra contenere contestazioni più ampie.
Tuttavia non è detto che il governo libico sia intenzionato a consegnare Almasri ai giudici dell’Aia. Anzi. Il comunicato di ieri precisa che «in presenza di prove sufficienti per procedere con l’accusa, la Procura ha rinviato a giudizio al tribunale competente l’ accusato, che è attualmente in custodia cautelare». Significa che il generale è detenuto a disposizione del tribunale libico chiamato a giudicarlo, un particolare che dovrebbe precludere l’affidamento alla Cpi per un altro processo.
Del resto, prima della svolta di maggio la Libia aveva giocato la carta del giudizio in patria con il governo italiano, per ottenere la restituzione di Almasri. Il 20 gennaio, quando il ricercato era rinchiuso nel carcere di Torino, l’ambasciatore di Tripoli a Roma trasmise al ministero degli Esteri la richiesta del procuratore generale del suo Paese di «estradizione di un cittadino libico», anticipando «sincera gratitudine» e auspicando il «raggiungimento degli obiettivi comuni, e di rafforzare la cooperazione giudiziaria a beneficio della giustizia e dei suoi principi».
Nella missiva del pg libico si annunciava che «l’imputato Osama Njeem è attualmente sottoposto a procedure d’indagine relative a casi di detenuti deceduti e a denunce per privazione della libertà, torture, trattamenti crudeli e degradanti», e dunque l’Italia doveva consegnarlo a loro, non all’Aia. Richiesta giunta alla Farnesina il 21 gennaio e al ministero della Giustizia il 22, quando Almasri era stato riaccompagnato a casa.
Per i tecnici del ministero della Giustizia (e per il tribunale dei ministri) la richiesta libica era un atto «strumentale, totalmente sprovvisto di provvedimenti e documenti»; non per il Guardasigilli e il governo che — soltanto nell’ultima delle diverse versioni difensive — hanno inserito anche la domanda giunta da Tripoli tra i motivi dell’espulsione (non estradizione) e del rimpatrio di Almasri. Accolto da uomo libero da una folla festante, non certo come un detenuto in attesa di giudizio. Oggi pare che le cose siano cambiate.
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6 novembre 2025
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