di
Gaia Piccardi

L’attore: «Sinner? Mi fido delle sue scelte. Le mie figlie mi aiutano a farmi sentire in equilibrio nel mondo»

Il tennis nel cinema italiano è stato l’io narrante di Vittorio De Sica (Il giardino dei Finzi Contini) o il cinismo tragicomico di Fantozzi (contro Filini nella nebbia). Il Maestro, di Andrea Di Stefano, invece — in piena era Sinner, cioè l’epopea di un predestinato —, celebra l’imperfezione di Raul Gatti, l’ex tennista disilluso che salvando la vita all’allievo la salva a sé stesso. Il maestro è Pierfrancesco Favino, disarmato di un intimismo che apre nuove porte.

Favino, batti lei.
«Di Stefano, il regista, è stato un buon giocatore: la sua storia l’ha riversata nel film. Il mio amore per il tennis non è ricambiato però oggi siamo diventati tutti un po’ tennisti, no? Vediamo Jannik, ma non quello che c’è dal decimo posto in giù. A me è piaciuta la possibilità di raccontare ciò che non si vede e, in un momento di ossessione per performance e successo, il viaggio di due persone che non sono due fenomeni. Nel maestro Raul Gatti sono entrato in una maniera diversa dal solito. Ho spesso fatto vincenti: magari personaggi negativi ammantati di carisma o che cadevano, ma dall’alto. C’è qualcosa di molto intimo, nel perdente Raul Gatti. Forse è una delle prime volte che si vede un aspetto di me, persona non attore, inedito».



















































Quale?
«Un uomo con le sue debolezze e i suoi fallimenti. Raul prende la vita a morsi, non ha paura di risultare patetico. Viviamo immersi in un grande moralismo, eppure lui non vuole fare il padre, è pieno di errori, è il rovescio di mille medaglie. Ciò nonostante, rimanendo lontano dalle dinamiche consuete del racconto paterno, diventa importante nella crescita del ragazzino».

In un mondo di performance — lo sono anche le guerre —, e di prepotenza trumpiana, raccontare la fragilità è quasi rivoluzionario.
«La guerra è la più grande forma di manifestazione della fragilità, secondo me. Mi ha sempre colpito una cosa, nella descrizione dei Ragazzi di Vita di Pasolini. Prima di qualsiasi atto violento, l’autore descrive uno stato d’animo: con un groppo in gola, come se stesse per piangere. Se devi scacciare la possibilità di piangere, altrimenti il mondo intorno a te ti giudica debole, allora usi la violenza. Invece io credo che si possa stare al mondo anche nella propria imperfezione. L’ho imparato da bambino. Ho memorie di mio padre, il mio primo maestro, illuminanti. Ho imparato mentre lui nemmeno sapeva che lo stessi osservando».

Qual è il suo più grande talento attoriale?
«La mia più grande forza è la mia fragilità. E non solo come attore. La fragilità mi fa aver bisogno degli altri, e non è debolezza. Non siamo fatti per stare da soli. Ci sono incontri casuali che ti cambiano la vita: un professore al liceo, un amore folle non ricambiato, il maestro Gatti e il tredicenne aspirante Sinner».

Il tennis si presta a tanti tagli di racconto. Il più letterario è il tema della solitudine del tennista: esiste una solitudine dell’attore?
«Quando Panatta dice che il tennis è lo sport del diavolo, ha ragione. È una battaglia spaventosa con la propria testa. L’attore vive spesso una condizione di solitudine, ma a differenza degli atleti non siamo mai soli nel momento della performance. Io passo metà anno in una camera d’albergo. È impossibile non fare i conti con te stesso e la tua vita vera, che in quell’istante sta andando avanti senza di te. Non ho un brutto rapporto con la solitudine, ma ho dovuto imparare. Anni fa mi metteva a disagio».

Come si impara a stare da soli?
«Praticando la solitudine. La pativo moltissimo, mi rendeva triste. Una delle ragioni per cui faccio l’attore è la dimensione di gruppo: il film è un lavoro di squadra. Amo andare sul set alle 8 di mattina e trovarci la troupe. Quando sono in trasferta scelgo l’appartamento, non l’albergo: ho bisogno di fingere che le mie abitudini non muoiano. Faccio la spesa, cucino… Una grande mano me l’hanno data le mie figlie, facendomi sentire sparso, ramificato nel mondo. È buffo ma è così».

E poi c’è la solitudine del numero primo. Riguarda Sinner, ma anche lei.
«Quando Jannik è scivolato al secondo posto dietro Alcaraz, ho pensato che fosse meglio per lui, per il ragazzo. Chi di noi può conoscere il livello delle energie di Sinner a fine stagione? Io mi fido delle sue scelte. Quando sei lassù, non hai nessun paravento. Sei solo ed esposto all’osservazione e alle critiche di tutti».

Ha sempre voluto fare l’attore?
«Voglio recitare da quando ho sette anni. Mi ero accorto di far ridere, e questa dote gratificava me e i miei. Ero un intrattenitore: riuscivo a mitigare le ansie famigliari, a far stare bene le persone. Era una chiave di successo e di accettazione. In classe imitavo il professore: la mia patente di socialità. Non ero il figone della scuola, sopperivo così. Ultimo di quattro figli, con tre sorelle: fare il simpatico, arrivando in una tribù consolidata, mi ha dato un ruolo. Il mio spazio, la mia voce, li ho trovati così».

Più indelebile la prima volta al cinema o a teatro?
«Il Don Carlos di Schiller, non propriamente un testo per bambini. I miei erano abbonati alla galleria, una delle poche cose che si permettevano. Tre ore e mezzo di spettacolo: rimasi abbagliato da quella scatola nera. Costruii un teatrino a casa, mi inventavo le storie. Ci passavo ore. E vedevo che mi veniva facile. Finito il liceo, ho provato a entrare in Accademia. È andata. Era l’89».

È andata bene. L’89 è l’anno in cui si svolge Il Maestro: nell’anniversario della presa della Bastiglia, il piccolo Chang fa la rivoluzione a Parigi e vince il Roland Garros.
«…mangiando banane e facendo impazzire Lendl con i servizi dal basso! Nell’89 era più facile pensare che, se ti fossi preso una laurea, avresti trovato una collocazione. Ero del tutto inconsapevole del rischio che correvo, provando a fare l’attore. Non avevo l’ambizione di appartenere ad alcuna élite, ma non mi sarei mai perdonato di non averci provato. Papà si mise contro di me, come antagonista. E oggi lo ringrazio. Mia madre era preoccupata. Ho avuto netta la sensazione che nessuno credesse che io ce la potessi fare: ne ricavai benzina».

L’Ultimo Bacio, Bartali o Sanremo: cosa le ha fatto svoltare la carriera?
«Tutti e tre. Però il lavoro che mi ha fatto pensare di poter fare questo mestiere in un certo modo è stato El Alamein. Sanremo fu un grande rischio, ma anche l’occasione di dimostrare chi sono: il compagno di banco che faceva ridere la classe».

C’è un personaggio che le è rimasto appiccicato addosso?
«Non sono Buscetta, Craxi, il Libanese e nemmeno Raul Gatti: sono la possibilità di diventare ciascuno di loro. Ogni volta, è un cassetto di opportunità che si apre. Craxi, per esempio, ha spalancato lo scenario di quello che potrà essere il rapporto con le mie figlie quando le mie forze verranno meno. Sembro affidabile, ma sono stato una persona totalmente inaffidabile».

La cosa meno affidabile che ha fatto?
«Ho avuto storie contemporaneamente, sono stato un bugiardo cronico, ho finto di avere soldi che non avevo, ho dato appuntamenti a cui non mi sono mai presentato. Ero il ragazzo romano che l’amica ti diceva: non ci uscire, con quello! Sono ancora di tutto un po’. L’identità è una convenzione sociale repressiva!».

È un momento storico in cui i giganti se ne vanno. Da Cardinale a Redford. Si sente un po’ più solo o più ricco per ciò che hanno lasciato?
«Non sono un tipo nostalgico: la commemorazione è una zavorra del nostro cinema. Mi piace di più l’idea di essere una freccia verso il futuro, non verso il passato».

Ma un mostro sacro di cui sente la mancanza, non c’è?
(Mostra l’anulare destro, con una piccola cicatrice). «Questi due punti sono la morte di Vittorio Gassman. Sono in cucina e sto tagliando il parmigiano. La tv accesa dice che è morto Gassman. Mi giro di colpo, e mi affetto il dito. Non ho nulla della grandezza di Vittorio ma ho voluto andare sulla sua tomba al Verano. Memore del Sorpasso, quando si sveglia e chiede di fumare, gli ho lasciato una sigaretta».

6 novembre 2025 ( modifica il 6 novembre 2025 | 07:41)