La casa Nautilus a Naucalpan, Messico, progettata da Javier Senosia ©Shutterstock

Il suo conterraneo Javier Senosiain ha realizzato un’opera duratura di case biomorfiche dai colori psichedelici che sembra espressione di pensieri lisergici e suggestioni da film di fantascienza anni Sessanta con un’eco disorientante. Gli interni si sviluppano e si avvolgono, tanto che i pavimenti diventano pareti, per poi trasformarsi in tavoli, mensole e scaffali, ovviando al bisogno di inserire qualsiasi mobile convenzionale (difficile in ogni caso da collocare in un ambiente privo di muri dritti), e le case si annidano in giardini rigogliosi e paesaggi alieni. La casa Nautilus, sempre di Senosiain, costruita a Naucalpan nel 2007, è uno sguardo nella vita quotidiana di un paguro – con vetrate variopinte dall’effetto psichedelico –, dal design antisismico. Mentre nella sua precedente Casa Orgánica (1984) a Città del Messico, un esperimento di bioarchitettura, ci si sente come intrappolati all’interno di un orecchio gigantesco. Eccentrica, ma straordinariamente bella.

L’architetto Juan O’Gorman e sua moglie a Casa O’Gorman in Messico. ©Shutterstock

L’architetto ungherese Antti Lovag scolpiva forme aliene simili già negli anni Sessanta, la più famosa è la residenza che progettò per Pierre Bernard, poi acquistata da Pierre Cardin. Si tratta del Palais Bulles, una casa scultura con moduli a forma di bolle vicino a Cannes, ricorda il Primitivismo del deserto di Guerre stellari e rappresenta un paesaggio da sogno di forme bizzarre fuse in qualcosa che richiama creature marine, ufo o barriere coralline fantastiche, con, ovviamente, un auditorium da 500 posti come un teatro greco con il Mediterraneo alle spalle.

La Kellogg Doolittle House progettata da Ken Kellogg nel Joshua Tree National Park, California. © Richard Powers/Living Inside

Un altro ungherese, Imre Makovecz, sviluppò un ramo dell’architettura organica derivata dalle idee filosofiche di Steiner su natura e metamorfosi, con spunti tratti da Frank Lloyd Wright e un’ingente dose di carpenteria popolare ungherese. Makovecz approfondì il suo stile lavorando nei boschi vicino a Budapest negli anni Ottanta, dove di fatto era stato esiliato quando era diventato scomodo per il potere. Usò il legno delle foreste per scolpire un nuovo linguaggio, lavorando con gli artigiani anziani ed emarginati della Transilvania e usando le loro abilità per realizzare qualcosa di volutamente diverso dalle case piatte in stile sovietico che erano diventate la norma nell’architettura del blocco orientale. Partendo da edifici per campeggi e centri sociali, si è fatto strada fino a realizzare chiese straordinarie cariche di arcana sacralità e una cappella funebre (al Farkasrét di Budapest, 1975) che ricorda l’interno della balena di Giona, con la bara posizionata dove sarebbe il cuore: una vera metafora di resurrezione. Di tutti questi architetti, Makovecz è stato uno dei maggiori rappresentanti dell’Organicismo, così come delle sue possibili insidie, dalla deriva politica alla vicinanza al kitsch. Ha anche ispirato un’intera scuola di architetti nel Paese, una nuova generazione di designer che lavorano il legno per realizzare edifici marcatamente espressionisti: ha creato un forte senso del luogo, uno scopo e un’identità per borghi dimenticati.

La sede parametrica del gruppo BEEAH negli Emirati Arabi Uniti, ad opera di Zaha Hadid Architects. © Hufton+Crow

Wright non aveva ragione forse a pensare che fosse tutto merito suo, ma è stato tramite i suoi discepoli che il movimento ha raggiunto il suo apogeo nazionale. Forse si accorda con quel tipico impulso americano a distinguersi, quello spirito libero delle praterie che mantiene un legame diretto con la natura. Oltre a Bruce Goff c’era Herb Greene, con la sua magica Prairie Chicken House a Norman, Oklahoma (1961), dove le tegole di legno sembrano piume arruffate di un uccello mostruoso che sta per spiccare il volo, o un ispido bufalo solitario nella pianura. O ancora la Creek House, ondulata in stile Hobbit, di Arthur Dyson, senza dimenticare poi l’opera di James Hubbell: la Sea Ranch Chapel, in California è un’onda esuberante con la cresta di schiuma composta da tegole di legno, pietre e rame patinato di un architetto artista che concepiva i suoi edifici come opere d’arte totali per tutti i sensi.

La casa di Pierre Cardin, il Palais Bulles, progettato da Antti Lovag. © Camera Press/Laif

I seguaci di Wright hanno continuato a sperimentare l’organico anche nel design, diramandosi in tutte le direzioni – come John Lautner, che, con il suo Modernismo anni Cinquanta super contemporaneo, con tinte organiche, a Hollywood divenne il preferito degli allestitori di covi per i cattivi. E Ken Kellogg, la cui Kellogg Doolittle House, ai margini del Joshua Tree National Park in California, rimane una casa che ha fatto scuola. Allontanandosi dal calore del legno, questa è una dimora molto più dura – sembra un armadillo schiacciato dentro il fianco di una collina. All’interno i muri si inclinano e curvano, abbracciano e liberano: una sorta di Brutalismo alleggerito, che conserva l’energia formale, ma non la pesantezza. Più simile alla Opera House di Sydney di Jørn Utzon nella sua decostruzione segmentata, ingloba in sé anche la topografia, con rocce e massi che si affacciano nei locali interni a creare accenti materici. Come molte case organiche, sembra emergere dal paesaggio, non si impone su di esso.