MILANO – «Non dovremmo distogliere lo sguardo dal dolore di Gaza». È questo l’appello che Nan Goldin, la grande fotografa americana, lancia dalla sua mostra This Will Not End Well, progetto del Moderna Museet di Stoccolma che approda ora, fino al 15 febbraio 2026, negli spazi di Pirelli HangarBicocca a Milano a cura di Roberta Tenconi con Lucia Aspesi. Un luogo metafisico e straniante, dove l’immenso spazio espositivo è occupato da un grande ambiente simbolico, un vero e proprio villaggio di padiglioni curvilinei e fantasmatici abilmente progettato dall’architetta Hala Wardé. Padiglioni circolari, a spirale che, immersi nell’oscurità del luogo, accolgono i celebri slideshow di Nan Goldin, montaggi di immagini in sequenza accompagnati da playlist musicali, con cui le sue emblematiche fotografie micromosse raccontano, semplicemente, l’esistenza.


Nan Goldin: Still from Sisters, Saints, Sibyls (2004–2022, particolare) © Nan Goldin/Courtesy Gagosian

Nan Goldin: Still from Sisters, Saints, Sibyls (2004–2022, particolare) © Nan Goldin/Courtesy Gagosian

 

A cominciare dal suo capolavoro, The Ballad of Sexual Dependency (1981-2022), racconto vibrante e malinconico del mondo ormai scomparso dei locali newyorchesi degli anni Ottanta, popolato di amici, amanti, artisti e fantasmi, travolti dalla libertà e decimati dall’Aids. Immagini sature di vita, sovraesposte alle intemperie esistenziali, mosse da complicità e leggerezza, scure di fatica e disincanto, accompagnate da una colonna sonora intima e struggente. Un racconto che si muove, padiglione dopo padiglione, dalla dipendenza dalle droghe e alla battaglia contro i produttori di oppioidi all’amore per gli animali, dalle meditazioni astratte sul ciclo della vita e della morte fino ai miti di Ovidio che si mescolano tra volti degli amici e opere dei musei. Vagando nel villaggio di Goldin, le suggestioni dei suoi film frastornano i visitatori elevandoli alla condizione di flâneur, privilegiati osservatori contemplativi in preda al piacere estetico e alla profonda malinconia dello spleen. Nel Cubo della navata, evocazione della cappella parigina della Salpêtrière, irrompe Sisters, Saints, Sibyls (2004-2022), installazione scultorea monumentale e intima dedicata alla sorella e al suo triste destino, altare contemporaneo che, riproducendo la quotidianità iperrealista della sua breve vita, trasforma il ricordo personale in azione partecipata di redenzione collettiva. Fino a incontrare il padiglione di Fire Leap (2010-2022), amorevole incursione nel mondo dell’infanzia, posto al centro del villaggio dove è giusto che i bimbi giochino. Immagini di tenerezza, maschere, frenesia, cori stonati e mondi trasformati dallo sguardo che l’artista condivide, madrina e sodale di quei giochi in cui anche noi, inevitabilmente, siamo coinvolti e partecipi. Ed è con quella luce ancora negli occhi, pieni di giochi e capricci di bambini, che ci si imbatte in Gaza: Notes on a Genocide (2023-2025), unica opera nello spazio aperto tra i padiglioni, nella piazza del villaggio, che tutti vedano. Un montaggio di video, magistrale nel ritmo e agghiacciante nei contenuti, la cui crudezza non avremmo saputo immaginare solo pochi anni fa se non in bianco e nero, o al massimo in vhs. Immagini gonfie di devastazione e resilienza, di danze tra le macerie e conta dei morti, raccolte «da amici che hanno visitato la Palestina, dai coraggiosi giornalisti sul campo, la maggior parte dei quali sono stati presi di mira, e dalle persone che la vivono».

Nan Goldin: This Will Not End Well (mostra HangarBicocca, Milano) © Nan Goldin/Courtesy Gagosian

Nan Goldin: This Will Not End Well (mostra HangarBicocca, Milano) © Nan Goldin/Courtesy Gagosian

 

Goldin lo dice con malinconica chiarezza: «Questo lavoro è un work in progress che rappresenta la testimonianza di ciò che mi ha consumato negli ultimi due anni: il bisogno di testimoniare». Ed è un bisogno che riverbera in tutta la mostra, dalle dediche che alla fine di ogni slideshow ricordano gli abitanti della Palestina, al senso cupo che nella penombra del villaggio avvolge i corpi dei visitatori trasformandoli in abitanti, fino all’uscita lontana nel buio, tempo di sedimentazione e meditazione, accompagnati dall’installazione sonora del Soundwalk Collective.

Dal corpo steso e dinoccolato della sorella, giovane suicida che ha segnato l’esistenza dell’artista, fino al corpo a brandelli dei bambini di Gaza, tutto è accomunato dall’esperienza interiore, personale, esistenziale del dolore, a cui Goldin risponde non raccontando la rabbia – che pure traspare – ma con un’ondata di bellezza e di speranza, di calore e di empatia, di abbracci disperati ma necessari.

Con una tenerezza sincera che non lenisce le ferite ma le riapre, perché aperte devono restare, a ricordarci che il dolore di uno è il dolore di tutti. E che l’indifferenza uccide molto più delle armi.