di
Luca Angelini

Trump ha dato semaforo rosso sulla vendita alla Cina dei chip più avanzati di Nvidia, i «Blackwell».

In queste ore, molti riflettori sono puntati sul giudizio di legittimità che la Corte Suprema americana dovrà dare sulle barriere tariffarie imposte da Donald Trump saltando il Congresso, in base a una legge molto poco utilizzata che risale al 1977: l’International Emergency Economic Powers Act (qui l’analisi di Federico Fubini). Ma c’è un’altra barriera commerciale appena innalzata dal presidente americano che è passata un po’ sotto silenzio: Trump ha dato semaforo rosso sulla vendita alla Cina dei chip più avanzati di Nvidia, i Blackwell. Una notizia non poi così scontata visto che proprio voci su un possibile via libera, alla vigilia del faccia a faccia con Xi Jinping, avevano contribuito a far schizzare oltre i 5 mila miliardi di dollari di capitalizzazione (circa due volte il Pil italiano e più di quello della Germania) l’azienda fondata da Jensen Huang.

La trattativa che stenta tra chip e terre rare

Nonostante la vicinanza di Huang a Trump, telefonate notturne del presidente incluse (in una di quelle, l’avrebbe anche convinto a non inviare la Guardia nazionale a San Francisco e, sulla sua assenza dalla cena con i capi di Big Tech, lo scorso settembre, Massimo Gaggi aveva scritto: «Per la forza della sua azienda e la tecnologia esclusiva dei suoi microprocessori, oggi Huang sembra guardare i colleghi di big tech dall’alto in basso. Lui, dicono i suoi, alla Casa Bianca preferisce andarci per incontri one to one»), alla fine hanno prevalso i «falchi», come rivelato dal Wall Street Journal. Nel corso dei preparativi dell’incontro con Xi, «alti funzionari, tra cui il Segretario di Stato Marco Rubio, hanno detto a Trump che le vendite avrebbero minacciato la sicurezza nazionale, affermando che avrebbero aumentato le capacità dei centri dati di intelligenza artificiale della Cina e si sarebbero ritorte contro gli Stati Uniti, hanno affermato i funzionari. Gli Usa si stavano già preparando a fare altre concessioni durante l’incontro con Xi, in cambio dell’autorizzazione da parte di Pechino alle esportazioni di terre rare». Tra gli altri contrari alla vendita, secondo le fonti del Wsj, ci sarebbero stati il Rappresentante per il Commercio Jamieson Greer e il Segretario al Commercio Howard Lutnick. Così, alla fine, la questione è sparita dall’elenco di quelle in discussione. E, nell’intervista a 60 Minutes della Cbs, Trump ha ribadito che gli Stati Uniti non daranno a nessun altro i chip più avanzati. «La decisione finale di Trump ha segnato una vittoria per Rubio e altri consiglieri di Trump su Huang, leader dell’azienda pubblica più capitalizzata al mondo», conclude il Wall Street Journal.



















































La geopolitica dell’intelligenza artificiale

In verità, lo stesso quotidiano ricorda che, ad agosto, Trump aveva dichiarato di essere disposto ad approvare la vendita in Cina di un chip Blackwell con capacità ridotte dal 30% al 50% (peraltro la stessa Pechino, nei mesi scorsi, ha detto alle sue aziende di non comprare chip Nvidia di livello meno avanzato, in particolare il processore RTX Pro 6000D, per le applicazioni industriali dell’intelligenza artificiale). Le parole di Trump, peraltro, gettano dubbi anche sulla possibilità, per Nvidia, di vendere i previsti 260 mila chip Blackwell alla Corea del Sud e, in particolare, a Samsung.

Pochi giorni prima della notizia dello stop ai chip Blackwell, in un’intervista a Laura Pace del Messaggero, Alessandro Aresu, il maggior esperto italiano di geopolitica dell’intelligenza artificiale (per usare il titolo del suo libro più noto) aveva sottolineato quanto Huang si fosse impegnato – in modo non certo disinteressato – per gettare un ponte fra Washington e Pechino: «Ha agito quasi da ambasciatore informale tra le due sfere nell’ultimo anno. Ha criticato apertamente i falchi anticinesi negli Usa, sostenendo che stanno sabotando la capacità tecnologica americana, e difende la collaborazione con ricercatori e aziende cinesi come essenziale al successo degli Stati Uniti. Le due fazioni continueranno a scontrarsi, ma Huang è abile non solo industrialmente ma anche politicamente».

Al momento, però, sono i falchi ad aver prevalso. John Moolenaar, deputato repubblicano che presiede l’House Select Committee on China, aveva detto che vendere i chip Blackwell alla Cina sarebbe stato «come vendere uranio arricchito a livello bellico all’Iran». La stessa commissione, a proposito di un’affermazione di Huang secondo cui non è importante chi alla fine vincerà la corsa dell’AI, ha scritto su X che «è come sostenere che non avrebbe avuto importanza se i sovietici avessero battuto gli Stati Uniti sulle armi nucleari».

L’ombra di Huawei

Nessuno pensa, però, che Huang si rassegnerà. «Si prevede che gli sforzi di Huang per vendere i Blackwell in Cina continueranno, soprattutto in vista della visita di Trump in Cina prevista per aprile», scrive il Wsj. E il già citato Aresu, in un intervento su Startmag, aveva sottolineato: «L’obiettivo di Nvidia, come quello di pressoché tutte le aziende, è aumentare le sue quote di mercato, difendere il proprio vantaggio competitivo e fare profitti. (…) Ogni provvedimento del governo degli Stati Uniti che chiude a Nvidia le porte del mercato cinese, pertanto, sarà contrastato dall’azienda. (…) Inoltre, la Cina per Nvidia è anche un essenziale bacino di talento, per gli sviluppatori che alimentano costantemente il suo potere di piattaforma e di ecosistema, e per i ricercatori che lavorano nei suoi laboratori, come tutti possono comprendere studiando l’organizzazione dei team di ricerca di Nvidia e ai paper aziendali. Più della metà dei dipendenti dell’azienda fondata da Jensen Huang si identificano come asiatici o asiatici americani». E, per far valere le sue ragioni, è probabile che insisterà sul rischio che lo stop ai suoi chip finirà per favorire lo sviluppo di quelli della temutissima rivale cinese Huawei: «Nvidia monitora gli avanzamenti di Huawei nelle infrastrutture per l’intelligenza artificiale da molti anni e teme, come deve fare qualunque concorrente, l’enorme capacità dell’azienda fondata da Ren Zhengfei di operare come grande integratore, con una forza lavoro eccezionale per quantità e qualità, dinamismo e reattività».

La conclusione di Aresu era questa: «Ad allargare e restringere i cortili (protezionistici, ndr) sono burocrati che, per ragioni di incentivi, non possono strutturalmente comprendere le tecnologie come le persone che le fanno, le quali stanno nei laboratori aziendali. Nessuna persona sana di mente può pensare che Jake Sullivan (consigliere per la sicurezza nazionale di Joe Biden, ndr) o Marco Rubio, o i loro consulenti, possano avere anche un milionesimo della competenza tecnica di ricercatori come Bill Dally o Bryan Catanzaro di Nvidia». Un esempio di cosa può andare storto? «Nella tesi espressa da Sullivan e dall’amministrazione Biden, il cortile dei semiconduttori doveva proteggere le tecnologie più “pregiate”, lasciando fuori i cosiddetti semiconduttori “maturi”. Tutto ciò veniva giustificato anche con ragioni militari. Peccato che per gli armamenti servano i cosiddetti semiconduttori “maturi”», più che i Blackwell. «Così, “il piccolo cortile con un’alta recinzione” (il modo con cui Sullivan aveva definito la strategia di protezione anticinese sulle tecnologie avanzate, ndr) diviene un classico cane che si morde la coda. E per questo avanza la tesi di Nvidia e di altre aziende che, anche per i loro interessi, dicono “basta limiti, basta regolamenti da imbecilli, fateci vendere tutto o quasi e vinca il migliore, cioè noi”. Oppure, Huawei».

Il boomerang 

Che abbia ragione o no, il ceo dal giubbotto di pelle nero (ma che si mette in giacca e cravatta quando incontra l’amico Donald), nato a Taiwan ma incarnazione del sogno americano e oggi alla guida dell’azienda più ricca del mondo, può aver perso una battaglia, ma non si rassegnerà a perdere la guerra. Una prima dimostrazione è arrivata proprio nelle ultime ore. Al Summit del Futuro dell’Intelligenza Artificiale organizzato dal Financial Times a Londra Huang ha detto senza mezzi termini: «La Cina vincerà la corsa dell’intelligenza artificiale». «Scottato» dallo stop ai Blackwell, il capo di Nvidia ha detto che la Cina ha tre vantaggi che potrebbero farle vincere la partita: energia a basso costo, poche regole che intralciano l’innovazione, e soprattutto una mentalità più propositiva. «Abbiamo bisogno di più ottimismo», ha detto a margine del convegno, riferendosi all’Occidente. E ha attaccato duramente la confusione normativa americana: «Negli Stati Uniti potrebbero arrivare 50 regolamentazioni diverse», una per ogni Stato che vuole dire la sua sull’AI.

Questo articolo è apparso in origine nella newsletter La Rassegna del Corriere della Sera. Per iscriversi, cliccare qui.

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6 novembre 2025 ( modifica il 6 novembre 2025 | 18:00)