Il 5 novembre 2015 usciva in Italia Spectre, ventiquattresimo film della saga di James Bond diretto da Sam Mendes. A dieci anni di distanza, l’opera con Daniel Craig resta un requiem elegante e mortale, dove la memoria diventa azione e la morte indossa un tuxedo. Tra teschi messicani, Aston Martin e Dirty Martini, Spectre consacra l’umanità ferita e il fascino crepuscolare di 007

Spectre compie 10 anni: perché rivedere il penultimo James Bond con Daniel Craig

Il 5 novembre 2015 usciva in Italia Spectre, ventiquattresimo film della saga di James Bond diretto da Sam Mendes. A dieci anni di distanza, il penultimo 007 con Daniel Craig resta un requiem elegante e mortale, dove la memoria diventa azione e la morte indossa un tuxedo. Tra teschi messicani, Aston Martin e Dirty Martini, Spectre rivela perché vale ancora la pena di rivedere Bond ballare con i suoi fantasmi.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.

Affiancato dalle bond girl Monica Bellucci e Léa Seydoux, Daniel Craig veste per la quarta e penultima volta i panni dell’agente 007 nel ventiquattresimo film ufficiale della saga di James Bond. Diretto da Sam Mendes, Spectre è un film in cui — tra Dirty Martini e Aston Martin — la super spia sfida la sua nemesi, interpretata da un luciferino Christoph Waltz.
Premiato con l’Oscar per la miglior canzone originale (“Writing’s on the Wall” di Sam Smith e Jimmy Napes), Spectre è un’elegia in smoking, un viaggio nell’ombra che trasforma l’azione in meditazione e la morte in stile.

Il film usciva in Italia il 5 novembre 2015, nel giorno della Guy Fawkes Night: una notte di fuochi e maschere, di cospirazioni e complotti, perfetta per accogliere un Bond che si muove tra i fantasmi del potere e della memoria.
E proprio la memoria è il vero detonatore di questo film.

Cesare Pavese scriveva: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.”
E in Spectre, il triste mietitore ha l’iride cerulea di Daniel Craig: spia stropicciata dalla vita, risoluto dispensatore di dipartite, ma anche umano, troppo umano, e dunque vulnerabile, in un mondo che non gli appartiene più.
Il ventiquattresimo film dell’agente segreto è un agitato e alcolico Memento Mori, dove sfilano vincitori e vinti, vittime e carnefici, assassini e assassinati.

Il ballo dei teschi

Dai titoli di testa brulicanti di crani e tentacoli, sino alla sublime sequenza di apertura, Spectre s’impone come una danza macabra monumentale.
Nella capitale del Messico, durante il Día de los Muertos, Mendes orchestra una vertiginosa coreografia di corpi, maschere e ombre in movimento.
Un inizio da capogiro, degno dell’“Alas poor Yorick” shakespeariano, che trasfigura la piazza della Costituzione in un luna park della fine, dove ogni sorriso è un teschio truccato da vita.
Totò l’avrebbe detto meglio: “Muoiono sempre gli stessi.”

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Fine licenza di uccidere

Nel tempo dei droni, della sorveglianza globale, del potere come algoritmo, la licenza di uccidere appare ormai scaduta.
Gli agenti doppio zero sono gladiatori stanchi, reduci che si congedano senza il tradizionale morituri te salutant.
Già nel 1964 Goldfinger apostrofava Sean Connery con un profetico: “Io mi aspetto che lei muoia.”
Mendes ne raccoglie l’eco e la moltiplica: Spectre è un requiem solenne scritto da Ian Fleming con la complicità di Marcel Proust, un film-memoria che rielabora lutti e amori, nemici e fantasmi.

Léa Seydoux, volitiva e fragile Madeleine Swann, è la donna che riporta Bond alla vita, mentre Monica Bellucci, vedova nera in reggicalze e veletta, incarna la Roma del desiderio e della perdita, una city of my soul byroniana, dove eros e thanatos si danno appuntamento tra i marmi e i vicoli.

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La memoria come arma segreta

Nelle stanze della memoria di 007, stretto negli abiti sartoriali Tom Ford, si affacciano le ombre di Casino Royale, Quantum of Solace e Skyfall.
Vesper Lynd, Le Chiffre, Dominic Greene, Raoul Silva, M: tutti tornano, come in una processione d’anime.
Bond li sfida e li accarezza, oscillando tra Londra e Tangeri, i ghiacciai austriaci e le sabbie del Marocco.
Fino a incontrare Franz Oberhauser, alias Blofeld, interpretato da un mefistofelico Christoph Waltz, demone gentile che lo accoglie con un ironico “cucù”: l’inferno, qui, ha le buone maniere.

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Dieci anni dopo

Rivedere Spectre oggi significa tornare al crepuscolo prima della fine, al punto in cui il mito iniziava a sciogliersi nell’uomo.
Con No Time to Die, Craig ha chiuso un cerchio di dolore e redenzione, ma è in Spectre che il cerchio comincia a restringersi: ogni gesto è un presagio, ogni sguardo un addio in anticipo.
Resta la sensazione di assistere non solo alla fine di un agente, ma alla dissolvenza di un’idea di cinema — quella che ancora sapeva invecchiare con eleganza, tra un brindisi e una ferita.

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Perché rivederlo oggi

È il penultimo Bond con Daniel Craig, e segna il passaggio dall’eroe al fantasma: un uomo che comincia a ricordare invece di dimenticare.

  • La regia di Sam Mendes firma una delle sequenze d’apertura più stupefacenti del XXI secolo, tra teschi e trombe messicane.

  • È un film sul tempo, più che sullo spionaggio: un requiem per un mondo che non esiste più, ma che continua a sedurci con il suo fascino mortale.

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    Se Spectre fosse un cocktail

    Spectre è un Dirty Martini servito nel bicchiere dell’oblio, con un filo di polvere da sparo e una goccia di malinconia.
    Un cocktail elegante, amaro, che profuma di cemento londinese e di tramonti marocchini.
    Lo si beve lentamente, guardando Craig allontanarsi con Madeleine tra le ombre di Westminster.
    E ci si accorge che, per una volta, James Bond non vuole più salvare il mondo — vuole solo ricordare com’era, quando era ancora vivo.

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